14 March 2019

“A sangue freddo” di Truman Capote - Cristina Vitagliano (Italiano)



"Sono un alcolizzato. Sono un tossicomane. Sono un omosessuale. Sono un genio". Così parlò Truman Capote, in un’intervista, descrivendo se stesso e la sua vita. Un Oscar Wilde del ‘900, lo definirono in seguito, forse più per la dichiarata omosessualità che per ipotetiche similitudini letterarie e caratteriali. Perché, mentre il più celebre dandy della letteratura britannica era noto per la sua personalità eccentrica e arguta ma comunque bonaria e per la sua estetica all’avanguardia per l’epoca, ma comunque elegante, lo scrittore americano, che tutto il mondo conobbe per “Colazione da Tiffany”, venne descritto da chi lo conosceva in toni ben più controversi e taglienti, proprio come la sua scrittura. Ed è proprio quel Truman Capote che ci interessa raccontare in questo articolo, quello che, nel 1959, dopo aver letto un articolo di cronaca nera sul New York Times, si lasciò alle spalle il ponte di Brooklyn e lo scintillio della Grande Mela per avventurarsi in un mondo che più distante non poteva essere, in un microcosmo di America fatta di contadini e granai, nel cuore del Kansas, dove iniziò il lungo percorso di interviste e indagini che lo portò, sei anni dopo, a completare la stesura del romanzo “A sangue freddo”. Il libro, un crudo reportage dedicato all’efferato massacro di un’intera famiglia di agricoltori ad opera di due criminali, conta una lunga serie di protagonisti, il primo dei quali non può che essere il Kansas. 


Si tratta di quello stesso Kansas in cui Dorothy abitava prima di essere portata a Oz dal tornado, ma questa storia non trova spazio per uomini di latta e streghe dell’ovest; nel Kansas di Truman Capote c’è l’America rurale per bene e cattolica, che caccia i fagiani, lavora la terra a testa bassa e si affida alla provvidenza; ma allo stesso tempo c’è l’America rurale più sofferente e più disperata, dove si mangiano latte condensato nei giorni di festa e banane marce nei giorni normali, dove si raccolgono cicche di sigaretta da terra e l’alcol da poco è l’unico palliativo alle sofferenze e alla violenza della vita. 

Truman Capote era molto, molto lontano da casa quando iniziò a scrivere “A sangue freddo”, eppure, forse, trovò lui stesso un palliativo alle sofferenze nel comporre il libro che, a suo stesso dire, gli cambiò la vita, entrando e spiando in modo quasi morboso le vite dei vari attori, tanto vivi quanto morti, di quella crudele tragedia. Proprio il suo modo, incredibilmente freddo e allo stesso tempo quasi spensierato e noncurante, di raccontare il massacro della famiglia Clutter, gli attirò numerose critiche, tra cui quella di aver agito con “voyeurismo cinico”. Quel romanzo, che, secondo le sue speranze, avrebbe dovuto regalargli il Premio Pulitzer, portò critici e lettori dell’epoca a interrogarsi su quel cinismo, a chiedersi se fosse giusto “osservare” un crimine come dal buco di una serratura, raccontandone fatti, dettagli e minuzie, senza mai cambiare tono, senza mai mettere in mezzo moralità, giudizio e, soprattutto, pietà. 


Si parla dei quattro membri della famiglia Clutter, della loro vita semplice, fatta di biscotti alla noce di cocco, chiesa, granai, caccia ai conigli, chiesa e tutto ciò che componeva la loro banalmente umana vita contadina. Si parla della giovane Nancy, che a sedici anni, nei suoi “jeans sbiaditi” e “maglione verde”, preparava torte alle ciliegie, violava il coprifuoco serale con il suo ragazzo conosciuto a scuola e, dalla sua stanza colorata, sognava Manhattan, la stessa Manhattan a cui apparteneva Capote. Non passano che una decina di pagine e, con lo stesso freddo candore, si parla nuovamente di Nancy, ma questa volta di una Nancy irriconoscibile, perché come altro poteva essere dal momento che le avevano “sparato alla nuca tenendo l’arma a pochi centimetri”? Si parla del suo orsacchiotto che, come lei, fissava il vuoto, e giaceva a fianco dei suoi piedi e delle sue mani legate. 

Non c’è una speranza di giustizia, non c’è pena e non c’è tristezza nel racconto della fine di Nancy e dei suoi familiari, c’è solo il freddo gelido delle notti di novembre del Kansas, ma forse anche di quelle di New York. 


Ci sono poi le storie e le parole dei due esecutori della strage, i due assassini che uccisero i Clutter senza pietà e che vennero, per questo, condannati a morte e giustiziati pochi mesi prima della pubblicazione di “A sangue freddo”. 

Capote li cita tacitamente nell’incipit del suo romanzo, parlando di “collaboratori” che, grazie a numerosi colloqui, resero possibile la stesura del libro. Ed è proprio a loro, Dick e Perry, gli unici due attori ancora in vita della tragedia e dunque gli unici che Capote poté conoscere in prima persona, che egli rivolge le più personali attenzioni. 


È dalle loro parole, trasmesse e arricchite dalle opinioni dell’autore, che sappiamo che Richard ‘Dick’ Hickock, “non aveva sensibilità per musica e poesia”, ma, non solo, era “intensamente solido, invulnerabile, assolutamente mascolino”

Allo stesso modo, sappiamo che Perry Smith, con cui si vocifera Capote ebbe addirittura un flirt (voci non verificate, ndr), “poteva essere come un bambino”, che passava ore intere a succhiarsi i pollici per poi “montare su tutte le furie più in fretta di dieci indiani ubriachi”

Sappiamo che Perry era “un giovane duro, freddo, con occhi sereni e un po’ sonnolenti”, e, a questo punto, non si può non capire come “freddo” sia realmente la parola chiave di questo libro e non solo perché è una delle tre parole che ne compongono il titolo. 

Freddo è Perry; ma freddo è anche il sangue che, in effetti, si gela nelle vene leggendo la dettagliatissima descrizione dell’omicidio, così come freddo è quel Kansas nel cuore dell’America e così come fredda, e allo stesso tempo bellissima, e la penna di Truman Capote in questo libro. 


“A sangue freddo” è un libro duro da leggere e da digerire. È un libro complicato, che ha richiesto sei anni per venire alla luce e che quei sei anni li dimostra tutti. Eppure è un libro che va letto, un libro necessario, anche solo per ammirare il talento letterario assoluto che l’ha scritto.

Cristina Vitagliano

09 March 2019

Réquiem for the Jilted Generation - Gabriele Nero (Español)


The Prodigy aparecieron como un puñetazo en el estómago en la escena musical de los años noventa, años en que los adolescentes se volvían locos por grupos de pop desechables, como Backstreet Boys, Spice Girls, Take That, mientras que los mayores se apresuraban a recoger el legado de los Beatles, con una gran cantidad de grupos musicales hechos por guaperas con Ray-Ban negros, montados por las principales compañías discográficas: Oasis, Verve, Blur. Las megas bandas de rock de los 80 comenzaron a guiñar el ojo al mainstream (recuerdo como una tragedia el lanzamiento de Load de Metallica, a la que aún hoy no puedo dar una explicación) y la escena underground, después de la muerte de Cobain, estaba dominada por el grunge 


Para aquellos que en 1997 (año de lanzamiento de The Fat of the Land) vivían su adolescencia, Prodigy ha representado mucho más que una banda o un icono, como he leído en estos días.

Los sociólogos y las discográficas se calentaban la cabeza para dar una   identidad, etiqueta a la generación de esos chicos que hubieran sido adultos en el 2000: Generación X, MTV Generation... en resumen, intentaban clasificarlos y  estudiarlos para poder desarrollar el modelo de los años ochenta: "Los años de plástico", menos rebelión y más aperitivos! Pero tomando como inspiración el nombre de su segundo álbum, Music for the Jilted Generation, estaba tomando forma y conciencia de sí una nueva generación, abandonada (Jilted!) a si mismo desde el principio, por la que The Prodigy representaron la primera transgresión, el primer concierto, la primera experiencia extrema.




A través de MTV, con Firestarter, como unos pirómanos locos, The Prodigy entraron en la imaginación y en los walkman de miles de fanáticos en todas las latitudes del mundo. Cuatro punkis de la provincia inglesa, que parecían salidos de Trainspotting: un rubio, genio de la electrónica, un negro de dos metros de altura que cantaba a una velocidad vertiginosa, dos bailarines callejeros, uno de origen caribeño y el otro disfrazado como un sátiro poseído o un payaso psicópata, que evocaba a IT el payaso de Stephen King. Esta descripción sería suficiente para hacer que la gente entienda lo que eran The Prodigy a mitad de los noventa.


Pero The Prodigy no eran solo imagen, ¡lejos de eso! De hecho, el grupo inglés tuvo éxito con algo difícil de repetir en la historia de la música: contaminar dos de los géneros de música underground más extremos, el techno-rave y el hardcore metal, y tener éxito en las listas de ventas de todo el mundo ¡llevaron lo más underground al mainstream! Desde el punto de vista musical, The Prodigy fueron los pioneros de la mezcla entre la música electrónica y otros géneros que no fueran la música dance o el pop, como en los años ochenta. El concepto musical de Prodigy, luego se declinó al metal con todo el Nu-Metal de los primeros años 2000 (Korn, Slipknot, Tool), mientras que en el lado electrónico empezaba a experimentar con el funky (Daft Punk, Gorillaz), e incluso monstruos sagrados como Madonna y David Bowie, en los años siguientes, recurrieron a los sonidos techno-jungle. 




Si tuviera que definirlos en una palabra, diría Avanguardia, porque The Prodigy, además de componer música que nadie se había atrevido a imaginar antes de entonces, lograron encarnar el espíritu de su tiempo, creando una nueva estética real, como solo los grandes artistas saben hacer. Sus videoclip grabados en los barrios marginales post-industriales con cámaras de baja resolución, montados con imágenes a ritmo epiléptico, básicamente eran la descripción perfecta de lo que estábamos viviendo. De adolescente solo tenías que ponerte los cascos, comenzar a andar por la ciudad con The Prodigy a tope,y mirarte alrededor para ver los mismos escenarios: fábricas abandonadas, ciudades dormitorios, fincas en ruina, yonquis y casas ocupadas; en estos momentos entendías que tu furia pertenecía a una furia más grande, a una furia mayor.
The Prodigiy han legitimado la rebelión de mi generación, tal como lo hicieron los Rolling Stones para la generación de  los años sesenta, o el punk para los de los años setenta.



The Jilted Generation fue la última que se formó en un mundo analógico, y la primera que tuvo que relacionarse con el mundo del trabajo totalmente digitalizado; la última que recuerda a los trabajadores del turno nocturno salir de los almacenes industriales, y que en los noventa, en esas mismas fábricas, entonces abandonadas, organizó rave memorables. Hoy, en esos mismos espacios, nos vamos todos  de compras: ahora son centros comerciales de reciente apertura.  


Los rave y la fiestas terminaron demasiado pronto y, quien más quien menos, todos nos hemos vueltos burgueses. Una de las pocas cosas que nos quedaban eran The Prodigy: la esperanza de un nuevo concierto, un nuevo disco, una nueva exageración. Como cuando después de años de silencio en 2009 salieron con Invaders must die, para recordarles a las nuevas y viejas generaciones quien eran  The Prodigy: tres locos ingleses que pasaban de todo y que con su música querían hacer mover el culo al mundo entero!


La última vez los vi en Valencia, en un festival donde, como siempre pasa, habían amontonado grupos sin criterio. Los Many Street Preacher, para los nostálgicos de los ochenta, seguidos por los Kaiser Chiefs, para que los jóvenes hipster pudiesen agitar sus barbas al sonido de "RubyRubyRuby uuuhhh", y que después de 2 horas de pop barato de supermercado, dejaron el escenario al milagro, a ellos: The Prodigy. Mientras las barbas y las camisas a cuadros se retiraban, desde el fondo emergían pequeñas flotas de hormigas negras, de treinta años de todas las formas (¡desafortunadamente alguien no muy en forma!) Tomaron posesión de las primeras filas, y mirando a mi alrededor pensé que aunque abandonados durante el pasaje de la civilización post-industrial a la digital, aún estábamos allí, antes del escenario de The Prodigy!


No estoy a contaros lo detalles de lo que fue el concierto. Solo puedo deciros que la emoción de estar a pocos metros de distancia de la nave espacial, y la consecuente explosión de luces y sonidos, capitaneada por Liam Howlett y sus sintetizadores y drum machine, Maxim el titán, y Keith Flint, con su voz distorsionada y limpia, tajante como una  Les Paul, puede compararse con la euforia de un gol en la final de la copa de tu equipo favorito, pero de dos horas de duración, o mucho más trivialmente, con un orgasmo de la misma duración. Si los habéis visto en vivo, sabéis de lo que estoy hablando, en el caso de que no, lo siento mucho por vosotros. Sí, porque al final del concierto sentías la misma sensación de cuando bajando de las montañas rusas, piensas: "¡Otra vez! ¡Quiero hacerlo de nuevo! "



Hacia finales de 2018, The Prodigy lanzaron No Turists, sus último álbum. A diferencia de todos los otros grupos que, con el paso de los años, tienden a suavizar su producción The Prodigy se presentaron con otro álbum más extremo que el anterior.


Pero el 4 de marzo de 2019, la muerte de Keith Flint, puso fin a todo esto. No habrá nuevo single, nuevo álbum, no habrá otro concierto de The Prodigy. Sin embargo, para aquellos que los habían visto recientemente o habían escuchado su nuevo álbum, The Prodigy todavía parecían estar en gran forma, aún enojados y con mucho más que decir.

Ahora que los arrepentimientos y los detalles de la dinámica de su muerte ya no nos sirven de nada, queda el hecho que la Jilted Generation, ya sin referencias, y a punto de ser devorada por una nueva generación de nativos digitales, ha sido abandonada por su profeta esquizofrénico, se ha quedado huérfana de su culto más puro y extremo: ¡The Prodigy! La Jilted Generation frente a la muerte de Keith Flint quedó aturdida, sin más furia, sin más voz, sin más música.


Gabriele Nero 

08 March 2019

Requiem for the Jilted Generation - Gabriele Nero (Italiano)


I Prodigy sono apparsi come un pugno nello stomaco sulla scena musicale degli anni novanta, anni un cui i teenager impazzivano per gruppi pop usa e getta, come Backstreet Boys, Spice Girls, Take That, mentre i più grandi si accapigliavano per raccogliere l’eredità dei Beatles, con una schiera di gruppi musicali fatti di bellocci con i Ray-Ban a goccia, messi su dalle major discografiche: Oasis, Verve, Blur. Le mega rock band degli anni 80 cominciavano a strizzare l’occhio al mainstream (ricordo come una tragedia l’uscita di Load dei Metallica, alla quale ancora oggi non so darmi una spiegazione) e la scena underground, dopo la morte di Cobain, era dominata dal grunge. 


Per quelli che nel 1997 (anno di uscita di The fat of the land) vivevano la loro adolescenza, i Prodigy hanno rappresentato molto più di un gruppo musicale o un’icona, come ho letto in giro in questi giorni. 

I sociologi e i discografici si scervellavano a dare un’etichetta, un'identità per la generazione di quei ragazzi che sarebero stati maggiorenni nel 2000: Generazione X, MTV Generation... insomma cercavano di categorizzarli e di evolvere il modello degli anni ottanta, “gli anni di plastica”, meno ribellione e più aperitivi. Ma proprio prendendo spunto dal nome del loro secondo album Music for the Jilted Generation, stava prendendo forma nuova generazione, abbandonata, piantata in asso in partenza, per cui i Prodigy hanno rappresentato la prima trasgressione, il primo concerto, la prima esperienza estrema. 


Proprio attraverso MTV, con Firestarter, come dei pazzi incendiari, i Prodigy entrarono nell’immaginario e nei walkman di migliaia di fans a tutte le latitudini del mondo. Quattro ragazzacci della provincia inglese, che sembravano usciti da Trainspotting: un biondino genio dell’elettronica, un nero alto due metri che cantava a perdifiato, due ballerini da strada, uno di origine caraibica e l’altro truccato come un satiro indemoniato o un pagliaccio psicopatico, quasi ad evocare il clown di IT di Stephen King. Basterebbe questa descrizione per far capire quanto fossero avanti i Prodigy a metà anni novanta. 


Ma i Prodigy non erano solo immagine, tutt’altro! Infatti al gruppo inglese riuscì un qualcosa di difficilmente ripetibile nella storia della musica: prendere due dei generi musicali underground più estremi, la techno da rave e il metal hardcore, contaminarli tra loro, e fare successo nelle charts di vendite di tutto il mondo, entrando nel mainstream! Dal punto di vista musicale i Prodigy furono i pionieri della commistione tra musica elettronica e altri generi che non fossero la musica dance o il pop, come negli anni ottanta. Il concetto musicale dei Prodigy, venne poi declinato al metal con tutto il Nu-Metal dei primi anni del duemila (Korn, Slipknot, Tool), mentre sulla sponda elettronica si iniziava a sperimentare con il funky (Daft Punk, Gorillaz), e persino mostri sacri come Madonna e David Bowie virarono verso sonorità techno-jungle. 


Se mi chiedessero di definirli in una parola, risponderei Avanguardia, perchè i Prodigy, come solo i grandi artisti sono in grado di fare, oltre a comporre musica che nessuno prima aveva osato nemmeno immaginare, sono riusciti ad incarnare lo spirito del loro tempo creando una vera e propria estetica. I loro video girati nei bassifondi post-industriali con telecamere a bassa risoluzione, montati con le immagini in susseguersi a ritmo epiletticco, in fondo erano il racconto perfetto di quello che stavamo vivendo. Da ragazzo bastava infilarti due cuffie e cominciare a camminare per la città con i Prodigy a palla, guardarti in giro e vedere gli stessi scenari: fabbriche abbandonate, città dormitorio, cantieri, tossici e case occupate; bastava quello per farti capire che la tua rabbia apparteneva a una rabbia più grande. 

I Prodigy hanno legittimato la ribellione della mia generazione, così come i Rolling Stones lo hanno fatto per la generazione di quelli che erano ragazzi negli anni sessanta, o il punk per quelli degli anni 70. 



La Jilted Generation, l’ultima ad essere stata formata in un mondo analogico, la prima che si è dovuta relazionare con il lavoro completamente digitalizzato; l’ultima che ricorda gli operai del turno di notte uscire da grigi capannoni industriali, e che negli anni novanta in quegli stessi capannoni, oramai abbandonati, organizzava rave memorabili. Oggi in quegli stessi spazi ci andiamo tutti a fare la spesa nel centro commerciale appena inaugurato. 


I rave e le feste sono finite troppo presto, e, chi più chi meno, ci siamo tutti imborghesiti. Una delle poche cose che ci rimanevano erano i Prodigy: la speranza di un nuovo concerto, un nuovo disco, una nuova esagerazione. Come quando dopo anni di silenzio nel 2009 uscirono con Invaders must die, a ricordare alle nuove e vecchie generazioni chi fossero i Prodigy: tre inglesi pazzi che se ne fottevano di tutto e che con la loro musica volevano far muovere il culo a tutto il mondo! 


L’ultima volta li ho visti lo scorso giugno, a Valencia, in un festival in cui avevano messo la solita accozzaglia di gruppi i Many Street Preachers, per i nostalgici degli Ottanta, seguiti dai Kaiser Chiefs, che hanno fatto ondeggiare le barbe di giovani hipsters al suono di “RubyRubyRuby uuuhhh”, e che dopo 2 ore di stranziante pop da supermercato lasciavano il palco a loro: i Prodigy. Mentre le barbe e le camicie a quadri arretravano, dal fondo emergevano piccole flotte di formiche nere, trentenni di tutte le forme (qualcuno ahimè sformato!) si appropiavano delle prime file, e guardandomi intorno pensavo che nonostante fossimo stati piantati in asso dal passaggio dalla civiltà post-industriale a quella digitale, eravamo ancora lì, davanti al palco dei Prodigy.



Non sto a farvi il resoconto di quello che è stato il concerto. Posso solo dirvi che l’emozione di stare di nuovo a pochi metri l’astronave, e l’annessa esplosione di luci e suoni, capitanata da Liam Howlett e dai suoi synth e drum machine vibranti, Maxim il colosso, e Keith Flint, con la sua voce distorta e pulita, tagliente come una Les Paul, può essere paragonabile all’euforia di gol in finale di coppa della vostra squadra del cuore, lungo due ore, o molto più banalmente, a un orgasmo della stessa durata. Se li avete visti dal vivo sapete di cosa parlo, altrimenti mi dispiace davvero per voi. Già perché alla fine del concerto senti la stessa sensazione di quando scendi dalle montagne russe e pensi:“Ancora! Voglio farlo di nuovo!”. 


Verso la fine del 2018, i Prodigy hanno fatto uscire No Turists, il loro ultimo album. A differenza di tutte le altre band che, con il passare degli anni, tendono  a rendere piu mellow la loro produzione, ad ingentilirsi, i Prodigy, si sono presentati con  l'ennesimo disco più estremo del precedente. 


Ma il 4 marzo 2019, la morte di Keith Flint, ha messo fine a tutto questo. Nessun nuovo singolo, nessun nuovo album, mai più un altro concerto dei Prodigy. Eppure per chi li aveva visti recentemente o aveva sentito il loro nuovo album, i Prodigy sembravano ancora in gran forma, ancora incazzati e con tanto ancora da dire. 

Ora poco contano i rimpianti e le dinamiche sulla sua morte, resta il fatto che la Jilted Generation, già senza riferimenti, e sul punto di essere divorata da una nuova generazione di nativi digitali, è stata piantata in asso dal suo schizofrenico profeta, è rimasta orfana del culto più puro ed estremo: i Prodigy! La Jilted Generation davanti alla morte di Keith Flint è rimasta attonita, senza più rabbia, senza più voce, senza più musica.


Gabriele Nero  

03 March 2019

VALENCIA WALLS & WORDS VOL.IV - Pamela Vargas




"La gran diferencia entre el arte de museo y el arte urbano es que este segundo esta vivo y va mutando a través del tiempo. Al permanecer desprovisto de conservación, el arte callejero se integra y fusiona al entorno donde el autor/a decidió plasmarlo. El pasar de los días, meses y años y los factores climáticos y humanos propios de estar en la intemperie van haciendo de esta intervención una historia con un inicio pero con final incierto.

Permanecer 3 años viviendo en Valencia ha permitido que Valencia Walls & Words se desarrolle como un libro historial de lo que ha ocurrido en los muros de valencia desde fines del 2015.

Valencia Walls & Word 4 reúne imágenes desde fines del 2018 e inicios del 2019, Barrios como La Xerea (Casco Antiguo), Ayora y Mestalla están retratados en esta cuarta edición.








26 February 2019

PRO CEDERE - DURA ARTE - Aldo Taranto

Pro Cedere - Dura Arte è un quaderno di viaggio, che, attraverso immagini, parole e fotografie, accompagna il lettore lungo il cammino, poetico e tortuoso, nell’arte e nella vita dell’artista siciliano, torinese d’adozione. In queste 100 pagine a colori, Aldo Taranto, che a Torino collaborò con affermati artisti delle avanguardie di fine Novecento, ci fa entrare nel suo profondo umano e creativo, partendo dalle proprie radici, spingedosi verso il trascendentale.


La prima parte del libro, “Pro cedere”, composta da immagini e parole- immagini, è divisa in sette capitoli nei quali appaiono sei figure femminili della famiglia dell’autore, ad eccezione del quarto dove appare un ritratto intimo dello stesso Aldo Taranto. Nell’ultimo capitolo c’è un’immagine di volti sovrapposti degli avi, mai conosciuti dall’artista. Questa parte del libro è stata pensata d’un fiato, come un diario intimo. E’ un libro verticale, qualcosa che assomiglia ad un albero genealogico dal lato femminile, con incursioni nel semplice quotidiano ed aspirazioni a rendere universale l’intimo e il transitorio. Nella seconda parte, “Dura arte”, la vita nello studio, il collettivo d’arte filisto251 e le mostre, sono narrate come risvolti esteriori di riflessioni su vicende private e intime, liquidate dallo stesso artista: «ma io non ero buono, portavo un peso inutile, ancora». 

Aldo Taranto: Torino è la sua seconda città, Siracusa è quella che gli ha dato i natali e in cui ha trascorso l’infanzia e la prima giovinezza e dove è tornato a vivere agli inizi degli anni Novanta. Con Torino ha sempre, però, mantenuto un legame, ne è una prova questo libro, sia per alcuni riferimenti in esso presenti, che per il contributo prezioso dato dal fotografo e artista torinese Max Zarri alla sua realizzazione. È proprio a Torino che Aldo Taranto viene folgorato dall’interesse per l’arte contemporanea, coinvolgendosi totalmente. Lavora qualche anno come assistente per diversi artisti riconosciuti, tra i quali Michelangelo Pistoletto, fino a quando viene invitato a partecipare alla mostra Serata Immateriale, nel 1986. La mostra, nata spontaneamente dall’incontro di alcuni giovani artisti, architetti ed attori di teatro, è la sua iniziazione come artista, il primo passo di un percorso nell’avventura dell’arte, che sebbene sarà discontinuo ed accidentato, anche a causa della malattia della sorella, proseguirà e lo accompagnerà nel corso della sua vita. Gli anni trascorsi a Torino sono stati quelli che manterrà vivi nella memoria, sia per una certa durezza che per l’estrema e dolce poesia vissuta. A Torino, inoltre, frequenta per alcuni anni il serigrafo Giancarlo Frassinelli, partecipando al suo gruppo di meditazione della scuola di Gurdjieff, esperienza interiore ancora oggi viva in lui. Tornato a Siracusa conosce alcuni giovani artisti che frequentano la Galleria Civica d’Arte Contemporanea Montevergini, fondata dal critico d’arte Demetrio Paparoni, e insieme a loro fonda un collettivo che prende il nome dall’indirizzo civico della sua sede: filisto251. Da lì si sviluppano una serie di mostre e iniziative, in parte narrate nel libro. Oggi questo collettivo non esiste più pur restando vivo il legame tra alcuni artisti che vi presero parte. La scrittura è stata da giovane una sua passione che ha ripreso quando alcuni artisti, tra cui Corrado Agricola, Sebastiano Mortellaro e Filippo di Sambuy, gli hanno chiesto di scrivere per loro. Questo è il primo suo libro. Può darsi che ne scriverà degli altri.




14 February 2019

Album Rotto - Luca Buoncristiano


Dopo le avventure che lo hanno visto protagonista nel romanzo Libro Rotto (El Doctor Sax), Joe Rotto, lo spacciatore per antonomasia, ritorna in un’opera grafica gotica e grottesca, non-sense e densa di humor nero.
Adriano De Vincentiis, il miglior disegnatore italiano, dai più accreditato come l’erede di Milo Manara cura la prefazione di questa non-opera.
Attraverso una galleria di immagini contraddistinte da un gioco di accecanti bianchi e neri affilati, l’autore realizza un affresco inchiostrato e scrostato di questo immondo mondo che abitiamo. Uno spietato ritratto di questa indecente e indecorosa umanità. Un incubo ad occhi aperti. Una Disneyland tossica e venefica. Uno zoo disumano.
Attraverso l’utilizzo di animali antropomorfi e la rilettura di personaggi noti dell’immaginario infantile collettivo, l'Album Rotto si offre come il peggior parco di non divertimento in cui entrare.
Nato più di dieci anni fa come opera grafica, Joe Rotto ritrova in questo lavoro la sua elegante forma originaria e la sua potenza espressiva contraddistinta non solo dai segni che lo delimitano ma anche dalla forma aforistica, tra boutade, giochi di parole e massime sentenziose e tendenziose.
Gli animali che fanno da contraltare, a volte tremendi a volte commoventi, sembrano incontrarsi con il protagonista in un impossibile dialogo tra esseri rotti.
Stando agli angoli del ring dominato da Joe Rotto, hanno pronto qualche gesto terribile o sofferenza indecente.
Nel lavoro di sottrazione dell’autore, ai più sensibili non sfuggirà qualcosa di bello e terribile, sotto queste maschere, sotto questi animali umanizzati, c’è una ferita che appartiene a tutti.
Album Rotto è un libro irresistibile come le peggiori sostanze spacciate dal suo protagonista.


Luca Buoncristiano nasce a Roma nel 1976 è un giornalista pubblicista e illustratore. Dal 2001 al 2002 è stato assistente di Edoardo Albinati per poi collaborare con la Fondazione L’Immemoriale di Carmelo Bene, curando la catalogazione del lascito artistico dell’attore. Nel 2012 ha pubblicato per Bompiani Panta Carmelo Bene. Con Alessandra Amitrano, in qualità di illustratore, pubblica con Fazi Mary e Joe nel 2007, Fazi Editore. Il suo personaggio Joe Rotto, apparso per la prima volta più di dieci anni fa sul primo blog di sole illustrazioni italiano, ha esordito nel 2008, nell’ambito della rassegna Ex Post presentata da Sandro Veronesi al Palazzo delle Esposizioni di Roma. Proprio Sandro Veronesi ha curato la prefazione di Libro Rotto, il primo romanzo che vede Joe Rotto come protagonista, pubblicato nel 2017 da El Doctor Sax.



29 January 2019

11 December 2018

04 December 2018

GUERRA - Daniele Mattei

Guerra: come uno squarcio.

Guerra è un libro di poesie e un racconto che s’intrecciano tra loro. Le liriche si specchiano richiamandosi a vicenda, spesso tendenti alla prosaicità raccontano più storie dentro la stessa storia.

Guerra è un libro diviso in dieci sezioni, di cui diverse raccontano una storia e altre sono spari solitari. Le immagini, le parole consuete, le scene, l’immaginario dell’autore si spostano e confondono volutamente da una pagina all’altra.

Guerra è disamina di diversi conflitti, di diverse fratture: dal dolore esistenziale al dilemma del sentimento, dall’ironia lucida che spesso appare a smitizzare fino a un esame impietoso del nostro tempo.

Guerra è un libro da leggere dall’inizio alla fine, farsi prendere per mano nei conflitti, nei dubbi, dalle domande. Seguire l’autore tra gli spari e le macerie, svestirsi con lui da quella divisa e prendere finalmente quel treno.

Guerra: Il ritorno da un viaggio doloroso verso una bramata pace.


Daniele Mattei è nato nel 1975, ha pubblicato in antologie curate da Antonio Veneziani. Guerra è il suo primo libro.