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05 May 2021

LA CAMPANA DI VETRO DI SYLVIA PLATH - di Rafael Becerra (Traduzione di Silvia Pantò)

 


È difficile capire le ragioni di un suicida. La scala di valori alla quale ci atteniamo normalmente non fornisce alcuna spiegazione sull'atto di togliersi la vita. In molti casi le ragioni del suicida, sono relazionate ad alcune circostanze che, unite ad una considerevole dose di disperazione, portano l'individuo a mettere fine alla propria vita, in un momento di crisi. Ma quando sono gli squilibri della mente a spingere una persona al suicidio, le spiegazioni ed i ragionamenti a riguardo sono superflui. 

La campana di vetro, è un libro più che premonitore, si potrebbe dire, perché pubblicato quasi in contemporanea al suicidio dell'autrice. Fu pubblicato subito dopo la sua morte. La protagonista del libro, Ester Greenwood, è la stessa Sylvya Plath, che narra l'intimo viaggio verso la pazzia, la successiva guarigione e reinserimento nella società. In realtà, questo reinserimento si trasformò nella sua fine. 


Da sempre, le persone che si tolgono la vita hanno attirato la mia attenzione. Un certo sentimento di rispetto e ammirazione, visto il coraggio nascosto dietro al gesto. Sono però caduto nell'errore di pensarlo come un atto premeditato. Proprio due anni fa ho vissuto da vicino il suicidio di una donna, sorella di un mio caro amico. Questa persona, professoressa, madre di due bambini, e apparentemente normale, conduceva una vita tranquilla e monotona, come quasi tutti noi, fino a quando qualcosa cominciò a rompersi nella sua mente, cominciò a dire di volersi togliere la vita. Suo fratello, senza ancora essersi reso conto dell'accaduto, mi raccontò con tristezza tutte le fasi che la donna aveva attraversato, fino a raggiungere il suo obiettivo. Ascoltare questo racconto fu sconvolgente: -Le voci mi dicono ucciditi! Credo che non c'è bisogno di soffermarsi ancora di più sul caso, già che nessuna congettura sfoderata dalla ragione ci farebbe arrivare ad una conclusione plausibile. 

Sylvia Plath si suicidò nel 1963. La campana di vetro, il suo primo romanzo che ho letto, mi ha fatto scoprire un'autrice dalla sincerità spiazzante, e il suo sguardo allo stesso tempo lucido e freddo, nascosto nelle pieghe del suo personaggio. Mostra, senza maschere, che le cose più semplici della vita possono essere progetti impossibili per quelle persone che rimangono chiuse all'interno questa campana immaginaria. La similitudine tra l'autrice e il suo personaggio è devastante. 31 anni, una vita corta per quel che può sembrare a noi, ma un eternità che pesa come un macigno per quelli che non riescono a sopportare il peso della propria esistenza. La sensibilità di questa donna invita ad immergersi nei suoi scritti, nelle sue poesie, che vi trascineranno in pieno verso il suo cuore e la sua mente. Poesia confessionale l'hanno definita, con l'ansia di classificare tutto, come se il fatto di porre un'etichetta ci desse la sicurezza che quello che leggiamo fosse catalogabile, quasi per farlo diventare innoquo, affinchè non ci faccia male. Si sbagliano. Sì, che può far male! La poesia, sono i cocci di cui si compone una persona. Non possono venire assemblati per appartenere a questo genere letterario o a quell'altra categoria, devono piuttosto spingerci al bordo del pozzo dal quale sono emersi, obbligandoci ad affacciarci e a guardarci dentro, anche solo per un istante, per vedere quanto sia spaventoso, ma allo stesso tempo bellissimo, vivere.
Rafael Becerra

28 April 2021

LE TANTE MORTI DI AMBROSE BIERCE di Rafael Becerra (Traduzione di Silvia Pantò)

 




È comune alla maggior parte dei recensori e biografi delle opere di Ambrose Bierce lasciarsi coinvolgere dai fatti che riguardano la sua misteriosa scomparsa e la sua morte. La questione in sè, alimenta la mente macabra dei lettori e degli stessi editori che continuano a parlare di come finì la vita dello scrittore al punto da inventare conclusioni bizzare, solo per poter avere un epitaffio certo di uno dei più grandi misteri della letteratura.

Per quanto molto conosciuta, non è della sua misteriosa scomparsa che voglio, ma delle tante morti che una persona si ritrova a dover affrontare nella propria vita, quelle che forgiano il carattere perché originate da circostanze dolorose, che possono condizionarci per tutta la vita. Questo fu il caso di Bierce, che gli inglesi soprannominarono Bitter Bierce, a causa dell'amarezza e della disillusione tipiche dei suoi scritti. Basta osservare la sua biografia per farsi venire un nodo in gola.

Essere il più giovane di nove fratelli, di una famiglia umile, in un villaggio dell'Ohio nel 1842, non può essere definita una fortuna, cosa che pensava anche Bierce, e da cui nasceva l'odio verso la propria famiglia. Suo fratello Albert era l'unico che sfuggiva all'ira della sua penna, non si sa bene perchè, ma si può intuire facilmente. E
ra sua madre il vero capo famiglia, calvinista e puritana, gestiva con rigore le vite dei propri figli e del marito scansafatiche, con la frusta in una mano e la bibbia nell'altra.

È in questo ambiente repressivo e pieno di pregiudizi che crebbero i nove figli e non c'era da meravigliarsi se tutti desiderassero scappare da lì. Uno dei suoi fratelli fuggì con un circo e un'altra sorella, andata in missione in Africa, ebbe un drammatico incidente relazionato alla dieta di alcuni indigeni.

A 17 anni Bierce entrò nell'accademia militare ma presto esplose la guerra di secessione che nel 1861 lo trascinò con sè. La tragedia della guerra si manifestò davanti gli occhi di quel ragazzo, con tutta la sua crudeltà e drammaticità; egli stesso ne farà le spese rimanendo gravemente ferito. Quest'esperienza così orribile fu ciò che ispirò buona parte delle sue opere. Difatti non vi era traccia d'invenzione alcuna nelle storie narrate in Nel mezzo della vita. Racconti di soldati e civili: ogni oscenità descritta
, sia morale che fisica, fu realmente vissuta in prima persona da Bierce. I racconti contenuti in quest'opera sono quelli di persone segnate da un destino avverso. Un'opera pacifista, che mostra le ombre di uno spettacolo bellico misero e privo di grandezza. Molti studiosi considerano questa raccolta di racconti come la sua miglior opera.

Bierce si stabilì poi a San Francisco e iniziò a scrivere per diversi giornali, interessandosi alla politica locale, venendo nuovamente deluso anche da questo mondo. Fu però questo il periodo in cui incontrò Mark Twain, con il quale strinse una solida amicizia. In seguito andò a vivere a Londra per tre anni, forse il periodo migliore della sua vita. Successivamente si sposò, ma purtroppo non visse un matrimonio felice: due dei suoi figli morirono tragicamente, uno in una rissa e l'altro alcolizzato. Nel 1889 si separarò da sua moglie, dopo 18 anni di matrimonio. Nel 1876, una volta tornato a San Francisco, ricominciò a scrivere per giornali attraverso i quali raggiunse un grande prestigio. Stufo del suo amaro presente, si imbarcò in quella che risultò essere la sua ultima avventura. Realizzò, prima di tutto, un viaggio in cui ripercose i campi di battaglia della guerra di secessione americana, e nel 1913 partì per la guerra civile in Messico, luogo in cui si persero le sue tracce.


Di Ambrose Bierce rimangono le sue opere, i suoi magnifici racconti, le sue storie fantastiche ed il suo incatalogabile e inimitabile Dizionario del diavolo, un'opera corrosiva piena di black humor, in cui lo scrittore fa magistralmente i conti con una società corrotta. Un capolavoro universale, sempre attuale,da rileggere spesso, vista la brutalità dei nostri giorni.

Bierce fu paragonato a scrittori come Nathaniel Hawthorne, Herman Melville, Edgar Allan Poe y Stephen Crane. Con un curriculum di questo livello, vale la pena immergersi nelle sue opere, perché si viene immediatamente catturati dal suo stile vivace, che trascina nelle storie, a volte terrificanti, altre violente, o fantastiche, con titoli davvero suggestivi come Il club dei parenticidi.

Un autore che continua a suscitare ammirazione e al quale è importante ritornare spesso per ricordarci che nessuna vanità, nessun cosa materiale, potrà salvarci dalla stupidità.

20 April 2021

LA CAMPANA DE CRISTAL de Sylvia Plath - por Rafael Becerra




Es difícil comprender las razones de un suicida. La escala de valores a las que nos atenemos las personas normalizadas no servirían para establecer ni para acercar una explicación al acto de quitarse la vida. En muchos casos esas razones pueden atender a determinadas circunstancias que junto con una buena dosis de desesperación llevan a la persona a terminar con su vida, quizás en un arrebato. Pero cuando es la mente distorsionada la que lo empuja al suicidio, las explicaciones o razonamientos quedan fuera de la ecuación.

La campana de cristal, es un libro, más que premonitorio, se podría decir, contemporáneo con el suicidio de su autora: Sylvia Plath. Fue publicado tras su muerte, y su protagonista, Ester Greenwood es ella misma, narrando el viaje íntimo hacía la locura y su posterior recuperación e integración en la sociedad. En la realidad, esa integración se transformó en su propio fin.


Siempre he tenido en alta consideración a las personas que se quitan la vida. Cierto sentimiento de respeto y admiración, dada la valentía del acto. Pero he caído en el error casi siempre de pensar en ello como un acto premeditado. Hace apenas dos años viví de cerca el suicidio de una mujer, hermana de un buen amigo. Esta persona, profesora, madre de dos hijos, y aparentemente normal, llevaba una vida tranquila y monótona como casi todos nosotros, hasta que algo comenzó a romperse dentro de su mente, y comenzó ha hablar de quitarse la vida. Su hermano, incapaz de comprenderla me narró con amargura los pasos que siguió hasta conseguir llevar a cabo su objetivo. Escuchar ese relato es estremecedor: -¡Las voces me dicen mátate! Creo que no hace falta ahondar más en el caso, ya que ninguna conjetura lanzada desde la razón nos haría llegar a ninguna conclusión plausible.

Sylvia Plath se suicidó en 1963, la 
La campana de cristal es la primera novela que leo de ella, pero me ha descubierto a una autora de una sinceridad brutal, su mirada encubierta en su personaje, de una lucidez y una frialdad terrible y hermosa al mismo tiempo. Muestra sin disfraz que las cosas más sencillas de la vida pueden ser proyectos imposibles para aquellas personas encerradas bajo esa campana imaginaria. El símil es demoledor. 31 años, una corta vida según lo podríamos ver nosotros, pero toda una eternidad que pesa como una losa para aquellos que no pueden soportar el peso de la misma. La sensibilidad de esta mujer invita a sumergirse en sus escritos, en sus poemas, que te arrastran de lleno a su corazón y su mente. Poesía confesional la nombraron algunos, en ese afán de tener todo clasificado, como si el hecho de poner una etiqueta nos diera la seguridad de que lo que leamos allí, ya está catalogado, ya no puede hacernos daño. Se equivocan. Sí que puede, la poesía que son trozos de una misma no se puede maquillar con clasificaciones ni etiquetas, siempre nos va a arrastrar al pozo de donde salieron, nos va a obligar a asomarnos al brocal y mirar dentro para que, aunque solo sea un instante, nos muestre lo terrible y hermoso que es vivir.
Rafael Becerra 

05 April 2021

POBRE BLANCO de Sherwood Anderson por Rafael Becerra

 


¿Cuándo te atrapa el progreso? ¿de qué forma se apodera de ti? Te rodea, te acorrala y difícilmente serás capaz de notar su silenciosa invasión, el primer golpe suele ser estrepitoso, como en una fiesta, cambia todo y de repente te invade la felicidad. La prosperidad está a la puerta, a partir de entonces todo será diferente, poco a poco, llevados de la mano de los más atrevidos nos sumergimos en el futuro. Hasta el punto de que pasado un tiempo los cambios más sutiles te pasarán desapercibidos, aceptarás las azucaradas mejoras como antes aceptabas la más ruin de las ignorancias. Entonces estás atrapado, intentar regresar es imposible, y solo te queda aceptar y firmar tu rendición.

Hugh Mcvey nacido de la pluma de Anderson se muere por agradar, por sentirse integrado y reconocido en el pequeño pueblo donde vive. Anhela el amor, la normalidad. Y se sirve de su ingenio para hacerse acreedor de tan volátiles tesoros. Construye una máquina que facilita la vida de la pequeña localidad agrícola, se gana el prestigio, pero en realidad es devorado por la industrialización imparable de la época que le ha tocado vivir. El retrato de ese avance implacable es el relato contenido en la novela: Pobre blanco. Las pasiones de sus protagonistas, la tragedia invisible que flota en el ambiente de prosperidad. Y la caída de todo el que se interpone en su camino.


Sherwood Anderson, autodidacta, no provenía de círculos académicos, sino que se formó rodando por Estados Unidos, una infancia itinerante de pueblo en pueblo, de colegio en colegio. Luego, la firme voluntad de ser escritor, de forma natural, inconformista, logró encandilar a la crítica con su colección de cuentos: Winersburg, Ohio. Pero ante una vida anterior de privaciones y calamidades, llegado su éxito y convertido en escritor famoso, no tarda en creerse su propia historia y en formar parte de una élite donde el trabajo más arduo es vigilarse unos a otros, mantenerse a salvo de las críticas y permanecer toda la vida en el candelero. En este punto la frescura da paso al hastío, la originalidad se vuelve mediocridad, y la caída es un abismo demasiado cercano. Faulkner lo retrata en su novela Mosquitos, donde no sale bien parado:

“Nuestra vida artística en Nueva Orleans me gusta, tiene una especie de encantadora futilidad” Su personaje Fairchild, caricaturizado de Anderson, provocó el enfado de éste, y el distanciamiento de los dos colegas, tal vez Faulkner trató de salvar a su amigo, de rescatarlo de una vida superficial que parloteaba sin parar sobre arte, sexo, literatura, sin profundizar en ninguna de sus opiniones. Sea como fuere, Sherwood Anderson fue víctima de aquello que supo denunciar tan bien en sus primeros libros: El progreso. Fue testigo de un cambio que lo acabó fagocitando y convirtiendo en alguien que nunca fue, pero que deseó ser desde su lejana e inestable infancia.

01 April 2021

I DIARI DI ADAMO ED EVA di Mark Twain recensito da Rafael Becerra (Traduzione di Silvia Pantò)

La Genesi non ci racconta nulla di loro. Si concentra più che altro sul Creatore, questo dio maldestro e crudele con i suoi capricci, ai quali vengono sottoposte tutte le creature. Tra le più disgraziate, viste le aspettative che aveva riposto in loro, Adamo ed Eva.

Chi gli ha mai dato voce? Chi si è mai sforzato di capire la loro difficile situazione di giovani ignoranti e innocenti, due bambini dalla mente malleabile e ancora priva di valori, costretti a scoprire il mondo da soli.

È per questa ragione che Mark Twain ci offre un bellissimo libro nel quale Adamo ed Eva si raccontano attraverso i propri diari. Attraverso questi, Twain immagina il loro processo di apprendimento, il conoscersi l’un l’altro, indagando sullo scontro di personalità che li ha condotti alla comprensione reciproca, alla vicinanza, alla mutua ammirazione, all’amore. Sentimento inventato da queste due creature, che con questa innovazione sono riuscite a superare proprio il Creatore, che dimostrava invece di esserne carente. Si può dunque colpevolizzare in maniera così esagerata due bambini incoscienti delle proprie azioni? Solo un essere, o un ente pieno di risentimento può farlo, solo un represso, passivo-aggressivo agirebbe in tale maniera. Fu così che quelle creature mosse dalla curiosità, hanno reso la loro specie così grande, disobbedendo. Lo fanno con l’incoscienza, figlia della totale mancanza di malizia e di esperienza, il rifiuto dell’irrazionalità. Come avrebbero potuto scatenare l’ira di dio, se non infischiandosene degli effetti delle proprie azioni, in modo insolente e spavaldo?


La Genesi ci presenta due personaggi ignorati, ma la cui storia è nota a tutti, creati per giustificare gli schemi di una religione che fallisce di fronte ad un analista (Twain) mosso dall’amore e dalla compassione per le creature confuse. Ci mostra un punto di vista che nessuno ha mai considerato, al principio dei tempi. Una giustizia storica necessaria e poetica. Una freccia intelligente che abbatte la nostra erronea capacità di dare le cose per scontate e di crederle vere così per come ci sono state raccontate. La bellezza di questi diari ci riconcilia con l’innocenza, ci invita a guardare con occhi differenti la persona con la quale conviviamo. Ci immaginiamo disperati in questo paradiso di solitudine che trabocca di qualsivoglia benedizione tranne una: l’amore. Questo strano sentimento che caratterizza l’esistenza umana. Questo soffio di effimera felicità contro il quale lottano alcune religioni monoteiste che sminuiscono un sentimento che non possono comprendere, e men che meno accettare, senza ostacolarlo, consapevoli che potrebbe far crollare il loro potere.

Questo è un libro da riscoprire, da rileggere, un libro bellissimo che ci strappa un sorriso, perché rilegato con un filo sottile di ironia.

Mark Twain esplora le possibilità che offre il racconto biblico per immaginare le reazioni di due esseri condannati a capirsi; non lo presenta come un castigo, ma come un’opportunità per analizzare la necessità di una controparte, in un mondo vergine e solitario. Che ne sarebbe di tutta l’esperienza, di tutte le scoperte, di tutti i dubbi, se non avessimo qualcuno con cui condividerli? La grandezza della solitudine in un mondo selvaggio finirebbe per divorarci. Nel racconto non ci sono critiche, i due giovani sono costretti ad abbandonare il Paradiso e prendendo atto della nuova realtà, senza giudicare chi per primo li aveva giudicati, cacciandoli. Continueranno a coltivare la loro innocenza, scoprendo il mondo esterno e le sfaccettature delle loro personalità, accettando il loro destino, tanto da far pronunciare ad Adamo queste immortali parole: «Ovunque lei fosse, lì era il Paradiso».

Rafael Becerra


25 March 2021

LAS MUCHAS MUERTES DE AMBROSE BIERCE por Rafael Becerra





Es habitual en la mayoría de los reseñadores y biógrafos de las obras de Ambrose Bierce verse arrastrado por los hechos misteriosos que rodearon su desaparición y su muerte. El asunto en sí, aviva la mente truculenta de los lectores y de los mismos editores que no paran de recordar una y otra vez el final del escritor. Final que ha alimentado la mente de unos cuantos que se inventaron rocambolescos colofones para poder sentar bajo una certeza y un epitafio uno de los grandes misterios de la literatura.

Aquí, por conocida que es la misteriosa desaparición, no hablaré de ella, pero sí, de las numerosas muertes que una persona puede sufrir en vida, esas que irán forjando tu carácter y que en aciagas circunstancias, puede condicionar toda tu vida. Ese fue el caso de Bierce, a quién los ingleses apodaron: Bitter Bierce. Debido a la amargura y la decepción que empapaban sus escritos. Basta echar un vistazo a su vida para tragar saliva con dificultad.

Su nacimiento como el benjamín de nueve hermanos en una familia humilde en un villorrio de Ohio en 1842 no puede definirse como afortunado, y recordarlo solo hacía manifestar en el autor un odio integral hacía su familia. Su hermano Albert es el único que escapa a la ira de su pluma, no se sabe porqué, pero no es difícil imaginar que sería quién no se dedicara a amargar la vida del pequeño de la familia. Por otra parte, su madre, verdadera cabecilla del núcleo familiar, calvinista y puritana, gobernaba con mano de hierro las vidas de sus cachorros y su indolente marido, el látigo en una mano y la biblia en la otra. En este ambiente represivo y lleno de prejuicios se crían los nueve pequeños, no es de extrañar que todos estuvieran deseando de salir de allí, uno de sus hermanos se fugó con una feria, y otra hermana, misionera en África, tuvo un dramático final relacionado con la dieta de algunos indígenas.

Con 17 años Bierce entra en la academia militar pero pronto estalla la guerra de Secesión arrastrando al joven a sus filas en 1861. La tragedia de la guerra con toda su crueldad y crudeza se manifiesta ante un muchacho que quedaría marcado de por vida ante experiencia tan amarga. Fue gravemente herido en combate. De esa guerra alimentaría parte de su obra, en Cuentos de civiles y soldados donde no
maquilla ninguna de las inmundicias experimentadas en la guerra, ya fueran morales o físicas. Unos cuentos plagados de seres arrastrados por un destino nada benévolos con ellos. Obra pacifista que muestra las sombras de un espectáculo bélico carente de grandeza. Muchos estudiosos proclaman sus cuentos de guerra como lo mejor de su producción.

Bierce se instala en San Francisco y comienza a escribir en diferentes periódicos, se interesa por la política local, pero nuevamente sufre un desengaño. Por aquella época conoce a Mark Twain con quién forja una sólida amistad. Más tarde se casaría y marcharía a vivir tres años a Londres, quizás la mejor época de su vida. Pero no vivió un matrimonio feliz, dos de sus hijos mueren de forma trágica, uno en una pelea, y el otro a causa del alcohol. En 1889 se separa después de 18 años de matrimonio. En 1876 una vez vuelto a San Francisco comienza de nuevo a escribir en periódicos donde alcanza un gran prestigio. Pero hastiado de su amargo presente se embarca en la última aventura. Realiza un recorrido por los campos de batalla donde antaño guerreó y en 1913 parte para la guerra civil de México, donde su rastro se pierde en aras de la especulación.


De Ambrose Bierce quedan sus obras, sus magníficos cuentos, sus historias fantásticas y su incatalogable e inimitable Diccionario del diablo una obra corrosiva plagada de humor negro donde ajusta las cuentas con una sociedad corrompida de forma magistral. Un libro de cabecera que hay que consultar de seguido, debido, a su siempre rabiosa actualidad.

Ha sido comparado con Nathaniel Hawthorne, Herman Melville, Edgar Allan Poe y Stephen Crane. Con semejante currículum merece la pena sumergirse en su obra, pronto te verás atrapado por su estilo ágil, que te arrastrara de lleno a cualquiera de sus cuentos, a los terroríficos, a los bélicos, o fantásticos con títulos tan sugerentes como El club de los parricidas.

Un autor que sigue despertando admiración y al que es necesario volver a menudo para recordar que ninguna vanidad ni ningún materialismo nos salva de la estupidez.

Rafael Becerra

19 March 2021

LOS DIARIOS DE ADÁN Y EVA de Mark Twain por Rafael Becerra

 


 



El Génesis no nos cuenta nada de ellos. Se centra en su creador, ese dios torpe y cruel a cuyo capricho quedaba toda criatura. Y las más desgraciadas, por lo que se esperaba de ellos: Adán y Eva.

¿Quién se ha planteado alguna vez darles voz? Comprender su difícil situación, dos jóvenes ignorantes e inocentes, dos niños de mente maleable que carecen de valores y se ven abocados a descubrir las cosas por sí mismos.

Mark Twain nos ofrece un bello relato en forma de diarios personales de Adán y Eva, imaginando como fue ese aprendizaje, ese conocimiento del uno para el otro, esa contradicción de caracteres que condujo al entendimiento, a la cercanía, a la mutua admiración. Al amor. Inventado por esas dos criaturas que superan en ese acto a su creador que carecía de el ¿Se puede culpabilizar a dos niños ignorantes de sus acciones de forma tan desproporcionada? Solo un ser, o un ente enfermo de resentimiento puede hacerlo, solo un reprimido actuaría de tal modo. Y aquellas criaturas llevadas por la curiosidad que haría tan grande a su raza, desobedecen. Lo hacen con la inconsciencia que les da la falta de maldad, la carencia de experiencia, el rechazo a la sinrazón ¿De qué otro modo hubieran desatado la ira de dios si no fuera por su desconocimiento del miedo y del alcance de sus actos?

El Génesis nos presenta a unos personajes ninguneados y reducidos por la historia, creados para justificar las pautas de una religión que fracasa delante de un analista (Twain) que hace su trabajo desde la compasión a unas criaturas desvalidas; desde el amor, y desde la concordia. Nos muestra un punto de vista ignorado al principio de todo. Una justicia histórica necesaria y poética. Un dardo inteligente que frena de golpe a nuestra equívoca capacidad de dar las cosas por sentado según nos son contadas. La belleza de estos diarios nos concilia con la inocencia, nos invita a mirar con otros ojos a la persona con la que compartimos la vida. Nos imaginamos sin remedio en esa soledad de un paraíso rebosante de todo menos de una cosa: El amor. Esa extraña cualidad humana que nos empatiza con la existencia. Ese soplo de felicidad efímera contra el que luchan algunas religiones monoteístas que zancadillean un sentimiento que no pueden comprender y menos aceptar sin cortapisas, a sabiendas de que su poder se desmoronaría.


Este es un libro para celebrar, para compartir, un libro hermoso que nos saca una sonrisa pues está hilado con un finísimo sentido del humor.

Mark Twain explora las posibilidades que ofrece el relato bíblico para imaginar las reacciones de dos seres condenados a entenderse, y lo plantea no como un castigo, sino como una oportunidad de analizar la necesidad que tenemos de nuestro contrario en un mundo virgen y solitario ¿qué sería de todas las experiencias, de todas las dudas, de todos los descubrimientos, si no tuviéramos a alguien con quién compartirlo? La magnitud de la soledad en un mundo salvaje acabaría por devorarnos. En el relato no hay reproches, los jóvenes abandonan el paraíso y asumen su nueva realidad sin juzgar al que juzgó y los expulsó. Ellos continúan alimentando su inocencia, aprendiendo, descubriendo la amplitud de su carácter y aceptando su destino con todas sus cualidades de su parte, que en un momento dado hacen pronunciar a Adán estas inmortales palabras:

Allí donde estuviera ella, estaba el paraíso.

Rafael Becerra

08 May 2020

John Fante, the Most Italian of the American Writers by Gabriele Nero. English Translation by Gaston Gorga





Holden Caulfield, the main character of “The Catcher in the Rye” had a very simple method for judging a writer: “(....) when you're all done reading it, you wish the author that wrote it was a terrific friend of yours and you could call him up on the phone whenever you felt like it. (...)”. Well, personally I would have spent hours listening to John Fante recounting the impossible stories about his family. I would have loved sharing a great spaghetti meal and a good bottle of wine with him, going out partying, or just having a drink together in some absurd bar in the outskirts of Los Angeles.

 The story of John Fante (as well as that of Arturo Bandini, his literary alter ego), began in the periphery of the world, in Torricella Peligna, a little village in the mountains of Abruzzo, from where Nicola Fante, his bricklayer father, emigrated at the beginning of the twentieth century to seek fortune in America. 

The Fante family settled in Denver, Colorado, in the Midwest region, on the outskirts of the American Dream. In short, in the American Abruzzo. Here, the Fante family built their own little Italy with red wine and spaghetti, gambling debts, old ladies dressed in black, Sunday masses and profanities in Italian. 

But John Fante, in spite of being in his twenties during the Great Depression, was ambitious, and never stopped believing in his talent. Both Fante and Bandini had a big dream in common: Los Angeles, California. 


In all of Fante´s stories, even those in which the main character is not called Bandini (in some novels the main character is called Henry Molise), there is always a bus to catch, a journey to begin, a place to arrive, a city where to prove the worth of Arturo Bandini, even though, paradoxically, he seldom manages to achieve this. Baseball player, Hollywood screenwriter, writer, altar boy: the protagonist of his stories always has the typical Italian presumption of being the best at everything he does, but for different reasons (a combination of fate, humble origins and his Italian origin and Catholic background certainly does not help), he is never able to prove it. After all, his father Nicola Fante would have been the best bricklayer in Denver... if only they had hired him! John 

Fante did not accomplish international fame in life. But one should not picture the typical bohemian writer who died poor and amid hardships. Eventually, thanks to his distinctively Italian perseverance, Fante was successful in the world of Hollywood as a screenwriter, and lived the second part of his life as a rich American bourgeois, with a beautiful wife, four children, a two-storey villa in Malibu and a convertible car.

“Bandini is a terrone !” (despective nickname given by the North Italians to the South Italians, to indicate their loud and brash character), said Italian songwriter Vinicio Capossela, who was one of the first Italians to discover Fante. How to blame him? Like all terroni , Bandini is stubborn, arrogant, a mummy's boy, a womaniser and a drinker, but, at the same time, he is an authentic person, generous, instinctive and full of passion. He is a professional in the art of getting by and boasting his presumed talent, even though no one has any proof of it. But he’s so adamant about it, that he ends up persuading the reader. 

Like in a transfert , the reader finds himself more convinced by Fante’s style, a master of synthesis and elegance, than Bandini’s. In Fante’s prose, the phrases are extremely short, direct and simple, and they follow one another with a frantic rhythm, somewhat reminiscent of a verdict. Reading Fante is easy. His books can be appreciated by a fourteen-year-old boy as well as a grandfather in his eighties, by an occasional reader as well as a philosophy graduate. 

Reading Fante is fun and light-hearted. Nevertheless, it also confronts the reader with the will of fulfillment of a generation shaped by history: families dismembered by the first mass migration, the Wall Street Crash of 1929 and two world wars. 

On the other hand, I believe Fante’s writings can only be fully understood by someone having directly or indirectly witnessed some form of migration. Furthermore, I don’t believe his works will ever join the pantheon of the American literary canon (being too Italian to be fully understood by contemporary America), the same way he will never be part of the Italian one (he wrote in American English, and was born in Denver, discarded!).



The Italianness of Fante reveals itself mostly as a sense of rebellion. John deeply loves the idea of the mestizo America as the land of dreams, and profoundly despises those Americans who betray these ideals, who discriminate against him, deride him and call him ‘ dago’ . To the smug rich little girl who boasts about her noble descent from Mary Stewart, the little Bandini retorts that he is the great-grandchild of Mingo, a bandit from Torricella Peligna. John idealises Torricella Peligna to the point of making it his identity refuge from where he can defend himself and counter-attack. 

Fante’s letters from Italy, collected in the book "Tesoro, qui è tutta una follia!" (It’s all madness here, darling!), where he tells of his travels in Europe between the 1950s and 1960s, are extremely amusing: his bucolic vision of post-Risorgimento Italy fades against the Americanised Rome of the Dolce Vita and the ‘ economic boom ’. While staying in Rome, Fante does not visit Torricella Peligna, despite being just over a hundred miles away, just not to risk becoming disillusioned.


It is perhaps in this non-identity, in this ego that sometimes self-deprecates and sometimes insults, at times Italian, other times American, sometimes conservative and sometimes democratic or anarchist, where the success of the literary character of Arturo Gabriel Bandini lies; unique, true and too modern even for us. 

Migrations, wars, second generations (or rather new mixed-race identities), economic crises and the consequent unemployment: these are all issues upon which we are forced to reflect today, perhaps even more than before. One can picture how forty years after his death, the voice of John Fante echoes loudly through millions of readers across the world, who discover the hidden treasure of one the greatest artists of the twentieth century. 

What I most admire about Fante, and therefore about Bandini, is his ferocious self-criticism. In fact, just when both John and Arturo seem to have accomplished their dream, they soon realise that perhaps it wasn't quite what they had once envisioned during the cold Colorado nights. Upon reaching California, they begin fantasising about a new life in Rome among ice cream parlours, Via del Corso, and thousands of small Fiat cars sweeping through the narrow streets where not even a mule with a cart would be able to get through. 


Even though Bandini had already experienced being cold and hungry during his youth, being marginalised for his Italian origins and finding himself broke and sleeping in abandoned boats by the ocean’s shore, his most bitter pages are undoubtedly those of "Dreams of Bunker Hill", where he describes the frustration of being hired and lavishly paid by a big Hollywood studio not to write. In fact, Bandini loves life too much to be locked inside an office, where he cannot write anything that satisfies neither him nor his producers. "I can't get no satisfaction" would become the anthem of the generation of Fante's children, yet, as the Stones sang, Bandini feels he is wasting his talent, and the only thing he can accomplish there is getting into trouble by seducing secretaries and literary agents. So Bandini, like a Franciscan, gives up everything and goes back to the cheap motel room he had left behind and starts writing. 

The Bandini saga culminates in the very moment that the literary character and the writer find themselves for the first time in front of a blank page and a typewriter. This is an excerpt from that moment, one of the last paragraphs that John, now blind and with his legs amputated because of diabetes, dictated to his wife Joyce in 1982: “But suppose I failed? Suppose I had lost all of my beautiful talent? (...) What would happen to me? Would I go to Abe Marx and become a busboy again? I had seventeen dollars in my wallet. Seventeen dollars and the fear of writing. I sat erect before the typewriter and blew on my fingers. Please God, please Knut Hamsun, don’t desert me now. I started to write and I wrote (...)”. 

John Fante tells us that it doesn't matter if you are Italian, Filipino or American, if you are an old person or a teenager, penniless or rich with a villa in Malibu. What matters is to stay alive, to have a California to dream of and a Torricella Peligna to always carry inside.

by Gabriele Nero 
English Translation by Gaston Gorga





30 March 2020

"Serotonina" de Michel Houellebecq - Enrico Romanetto (Español)



Sin sexo la sociedad muere 

La revolución del hombre común 

La suerte de esta novela radica en el hecho de que tiene más puntos de fuerza que debilidades, por eso hay que leerla en la edición de Anagrama, que como siempre ofrece lo mejor de la literatura contemporánea, con la misma (aburrida) grafica de siempre. "Serotonina" es una síntesis perfecta para cualquiera que quiera conocer a Michel Houellebecq y averiguar su narrativa, cuatro años después del clamor de "Sumisión". Un resumen de sus temas favoritos, cuyo único defecto es invertir Florent- Claude Labrouste – personaje fetiche fácilmente reconocible en el anterior "El mapa y el territorio" o " Ampliación del campo de batalla " y etiquetado bajo la categoría de decadente - de la tarea de representar al autor en una especie de confesión literaria y personal con el regusto de testamento. Porque en la pequeña píldora blanca Captorix, que representa al antagonista desde las primeras páginas, está el uso principal de la farmacia como el objetivo último de la evolución humana, acompañándola hacia la catástrofe. Una catástrofe no declarada y de la cual Houellebecq esboza rastros siniestros en los primeros capítulos, convincentes y llenos de todos esos matices extremos, propios del autor. Tanto sexo explícito y pornografía barata, que poco tiene a que ver con la banalidad de la vida de un funcionario de 46 años del Ministerio de Agricultura, en la Francia de Emmanuel Macron. 

Una sinopsis poco generosa nos obligaría a resumir lo siguiente: un burgués se enferma de depresión y, gracias a una buena disponibilidad financiera que lo convierte en un privilegiado, deja su trabajo y un compañero oriental perturbado, cierra las cuentas bancarias y se encarcela voluntariamente en una habitación de un hotel en el corazón de París. Una moderna torre de marfil sobre la nada, desde la cual Labrouste comienza a reflexionar sobre la vida pasada, consumiendo lo que queda de la misma, hasta una autodestrucción compasiva. Pero sería poco generoso, precisamente, porque Houellebecq elige esta perspectiva para presentar, una vez más, la sección transversal de un fin del mundo, propio, donde alberga todo tipo de miseria y fealdad. Sexo con animales e infidelidades de sentimientos, pedofilia y persecución, contextuales a la revuelta de una clase media que, incluso antes de ponerse el chaleco amarillo y quemar París, ya desde las páginas hace a tiros con la policía, agitando el espectro de la revolución del hombre común. Sin embargo, en "Serotonina" hay demasiado Houellebecq. Tanto como para el lector ávido y morboso, que para el filósofo que quiera encontrar reflexión y asco al mismo tiempo, acompañando el final del deseo de un empleado no banal, alrededor de la mediana edad, hacia un gesto mucho más humano y definitivo que la resignación. 

Enrico Romanetto

29 March 2020

"Serotonina" di Michel Houellebecq - Enrico Romanetto (Italiano)




Senza sesso la società muore 

La rivolta dell'uomo comune 

La fortuna di questo romanzo sta nel fatto di avere più punti di forza che debolezze, ragion per cui leggerlo. Comunque. E affrontare con coraggio le 332 pagine con cui La Nave di Teseo ha nuovamente accolto a bordo un campione della letteratura europea dopo “In presenza di Schopenhauer” del 2017. “Serotonina” è una sintesi perfetta per chiunque voglia conoscere Michel Houellebecq e la sua narrativa o scoprirlo a quattro anni dal clamore di “Sottomissione”. Una sintesi dei suoi argomenti preferiti, la cui unica pecca è investire Florent- Claude Labrouste - personaggio- feticcio facimente riconoscibil nei precedenti “La carta e il territorio” o “Estensione del dominio della lotta” ed etichettabile sotto la categoria del decadente - del compito di rappresentare l’autore in una sorta di confessione letteraria e personale con il retrogusto del testamento. Perché nella piccola pillola bianca Captorix, che già dalla quarta di copertina e dal titolo ci rappresenta l’antagonista principale nel ricorso alla farmacia come ultimo traguardo dell’evoluzione umana, si arriva alla catastrofe. Una catastrofe non dichiarata e di cui Houellebecq dà rare tracce nelle prime cento pagine, avvincenti e piene di tutti quelle sfumature estreme sue proprie. Tanto sesso esplicito e pornografia a buon mercato, che poco sembrano avere a che fare con la banalità della vita d’un funzionario quarantaseienne del ministero dell’Agricoltura nella Francia di Emmanuel Macron. 

Una sinossi ingenerosa costringerebbe a sintetizzare così: un borghese s’ammala di depressione e grazie a una buona disponibilità economica, che ne fa un privilegiato, lascia il lavoro e una disturbata compagna orientale, chiude i conti in banca e si incarcera volontariamente in una stanza d’hotel nel cuore di Parigi. Una moderna torre d’avorio sul nulla da cui Labrouste parte per ripercorrere la vita a ritroso, consumandone ciò che resta fino a una commiserata autodistruzione. Ma sarebbe ingenerosa, appunto, perché Houellebecq sceglie questa prospettiva per presentarci, ancora una volta, lo spaccato di una fine del mondo, tutta sua, che ospita ogni genere di miseria e bruttura. Sesso con animali e infedeltà di sentimenti, pedofilia e persecuzione contestuali alla rivolta di un ceto medio che, ancor prima di indossare il gilet giallo e bruciare Parigi, già dalle pagine di questo romanzo fa a colpi di fucile con la polizia, agitando lo spettro della rivoluzione dell’uomo comune. In “Serotonina” c’è troppo Houellebecq, però. Ancor di più per il lettore accanito e morboso, tanto più ancora per il filosofo che volesse trovarci riflessione e disgusto al contempo. Accompagnando la fine del desiderio in un non banale impiegato, ormai prossimo alla mezza età, verso un gesto molto più umano e definitivo della rassegnazione. 

Enrico Romanetto

17 March 2019

"A sangre fría" de Truman Capote - Cristina Vitagliano (Español)





“Soy alcohólico. Soy drogadicto. Soy homosexual. Soy un genio”. Así habló Truman Capote en una entrevista describiéndose a sí mismo y a su vida. Un Oscar Wilde siglo XX, le etiquetaron más tarde, quizás más por su homosexualidad declarada que por hipotéticas similitudes literarias. Porque, si bien el dandy más famoso de la literatura británica era conocido por su personalidad excéntrica y por su estética vanguardista, pero elegante, el escritor estadounidense, a quien todo el mundo conocía por "Desayuno con diamantes", fue descrito por aquellos que lo conocieron, como un hombre controvertido y agudo, igual que su escritura. Y es precisamente este Truman Capote lo que nos interesa, el que, en 1959, después de leer un artículo sobre un asesinato en el New York Times, se dejó atrás el puente de Brooklyn y las luces de la Gran Manzana para aventurarse en un mundo que no podría haber estado más lejos. Un microcosmos de Estados Unidos formado por campesinos y graneros, en el corazón de Kansas, donde comenzó el largo viaje de entrevistas e investigaciones que lo llevaron, seis años más tarde, a completar la escritura de la novela "A sangre fría ”. El libro, un informe crudo, dedicado a la brutal masacre de una familia entera de agricultores por manos de dos criminales, tiene una larga lista de protagonistas, el primero de los cuales solo puede ser el  estado de Kansas.


Es el mismo Kansas donde Dorothy vivió antes de ser arrastrada a Oz por el tornado, pero esta historia no tiene lugar para hombres de hojalata y brujas; en el Kansas de Truman Capote hay una América rural y católica, que caza faisanes, trabaja la tierra con la cabeza hacia abajo y depende de la divina providencia; pero al mismo tiempo, es una América rural, conmovedora y desesperada, donde la leche condensada se come en los días de fiesta y los plátanos podridos en los días normales, donde se recogen colillas de cigarrillos del suelo y el alcohol es barato. Simples paliativos para el sufrimiento y la violencia de la vida. 

Truman Capote estaba muy lejos de su casa cuando comenzó a escribir "A sangre fría", sin embargo escribiendo este libro se encontró con un paliativo a su propio sufrimiento, tanto  que, según sus palabras, este libro cambió su vida. Su manera, increíblemente fría, y al mismo tiempo casi despreocupada y descuidada, de contar la masacre de la familia Clutter, le trajo numerosas críticas, entre ellas la de haber actuado con un "voyeurismo cínico". Esta novela, que, según sus esperanzas, debería haberle hecho ganar el Premio Pulitzer, llevó a los críticos y a los lectores de la época a preguntarse sobre este cinismo, a preguntarse si fuese correcto "observar" un crimen desde el ojo de la cerradura, contando hechos, detalles y minucias, sin cambiar de tono, sin juicio y, sobre todo, sin lástima.


Capote nos cuenta de los cuatro miembros de la familia Clutter, y de sus vidas simples, hechas de galletas de coco, graneros, caza de conejos, iglesia y de todo lo que era su cotidiana vida campesina. Nos cuenta de la joven Nancy, de sus dieciséis años, de sus "vaqueros desteñidos" y su "suéter verde", preparaba tartas de cerezas, quedaba con su novio conocido en la escuela y, desde su colorida habitación, soñaba con Manhattan, la misma Manhattan que amaba Capote. Una docena de páginas y se habla nuevamente de Nancy, pero esta vez de una Nancy irreconocible, porque  le habían disparado en el cuello. Se habla de su osito de peluche que, como ella, mirando al cielo, se tendió a sus pies, atado a sus manos.

No hay esperanza de justicia, no hay dolor, no hay tristeza en la historia de Nancy y de su familia, solo existe el frío helado de las noches de noviembre en Kansas, que, tal vez, se parece al mismo frío de las noches de Nueva York.



Luego están las historias y las palabras de los dos ejecutores de la masacre, los dos asesinos que mataron sin piedad a los Clutters, y que, por este motivo, fueron condenados a muerte y ejecutados unos meses antes de la publicación de "A sangre fría".

Capote los menciona tácitamente al principio de su novela, hablando de "colaboradores", que gracias a numerosas entrevistas, hicieron posible escribir el libro. Y es hacia a Dick y Perry, los únicos actores aún vivos de la tragedia, los únicos que Capote pudo conocer en persona, a quienes dirige su atención.


Gracias a sus palabras, transmitidas y enriquecidas por las opiniones del autor, sabemos que Richard "Dick" Hickock, "no tenía sensibilidad para la música y la poesía", pero, no solo eso, era "intensamente sólido, invulnerable, absolutamente masculino".

De la misma manera, sabemos que Perry Smith, sobre el cual hay rumores de una  relación sentimental con el mismo Capote (rumores no verificados), "podía ser como un niño", que pasaba horas enteras chupándose los pulgares y al mismo tiempo "era capaz de enfadarse más rápido que diez indios borrachos ".

Sabemos que Perry era "un joven duro y frío, con una mirada serena y un poco adormecida". Este es el punto: "frío" es realmente la palabra clave de este libro y no solo porque es una de las tres que componen el título.

Perry es frío; pero fría es también la sangre del lector, que realmente se congela en las venas al leer la descripción muy detallada del asesinato, así como de frío es el Kansas, en el corazón de América, tan frío y al mismo tiempo hermoso, como el estilo de Truman Capote.


"A sangre fría" es un libro difícil de leer y de digerir. Es un libro complicado, que tardó seis años en salir a la luz y que esos seis años los muestra todos. Sin embargo, es un libro que hay que leer, un libro necesario, aunque solo sea para admirar el absoluto talento literario de Truman Capote.

Cristina Vitagliano

14 March 2019

“A sangue freddo” di Truman Capote - Cristina Vitagliano (Italiano)



"Sono un alcolizzato. Sono un tossicomane. Sono un omosessuale. Sono un genio". Così parlò Truman Capote, in un’intervista, descrivendo se stesso e la sua vita. Un Oscar Wilde del ‘900, lo definirono in seguito, forse più per la dichiarata omosessualità che per ipotetiche similitudini letterarie e caratteriali. Perché, mentre il più celebre dandy della letteratura britannica era noto per la sua personalità eccentrica e arguta ma comunque bonaria e per la sua estetica all’avanguardia per l’epoca, ma comunque elegante, lo scrittore americano, che tutto il mondo conobbe per “Colazione da Tiffany”, venne descritto da chi lo conosceva in toni ben più controversi e taglienti, proprio come la sua scrittura. Ed è proprio quel Truman Capote che ci interessa raccontare in questo articolo, quello che, nel 1959, dopo aver letto un articolo di cronaca nera sul New York Times, si lasciò alle spalle il ponte di Brooklyn e lo scintillio della Grande Mela per avventurarsi in un mondo che più distante non poteva essere, in un microcosmo di America fatta di contadini e granai, nel cuore del Kansas, dove iniziò il lungo percorso di interviste e indagini che lo portò, sei anni dopo, a completare la stesura del romanzo “A sangue freddo”. Il libro, un crudo reportage dedicato all’efferato massacro di un’intera famiglia di agricoltori ad opera di due criminali, conta una lunga serie di protagonisti, il primo dei quali non può che essere il Kansas. 


Si tratta di quello stesso Kansas in cui Dorothy abitava prima di essere portata a Oz dal tornado, ma questa storia non trova spazio per uomini di latta e streghe dell’ovest; nel Kansas di Truman Capote c’è l’America rurale per bene e cattolica, che caccia i fagiani, lavora la terra a testa bassa e si affida alla provvidenza; ma allo stesso tempo c’è l’America rurale più sofferente e più disperata, dove si mangiano latte condensato nei giorni di festa e banane marce nei giorni normali, dove si raccolgono cicche di sigaretta da terra e l’alcol da poco è l’unico palliativo alle sofferenze e alla violenza della vita. 

Truman Capote era molto, molto lontano da casa quando iniziò a scrivere “A sangue freddo”, eppure, forse, trovò lui stesso un palliativo alle sofferenze nel comporre il libro che, a suo stesso dire, gli cambiò la vita, entrando e spiando in modo quasi morboso le vite dei vari attori, tanto vivi quanto morti, di quella crudele tragedia. Proprio il suo modo, incredibilmente freddo e allo stesso tempo quasi spensierato e noncurante, di raccontare il massacro della famiglia Clutter, gli attirò numerose critiche, tra cui quella di aver agito con “voyeurismo cinico”. Quel romanzo, che, secondo le sue speranze, avrebbe dovuto regalargli il Premio Pulitzer, portò critici e lettori dell’epoca a interrogarsi su quel cinismo, a chiedersi se fosse giusto “osservare” un crimine come dal buco di una serratura, raccontandone fatti, dettagli e minuzie, senza mai cambiare tono, senza mai mettere in mezzo moralità, giudizio e, soprattutto, pietà. 


Si parla dei quattro membri della famiglia Clutter, della loro vita semplice, fatta di biscotti alla noce di cocco, chiesa, granai, caccia ai conigli, chiesa e tutto ciò che componeva la loro banalmente umana vita contadina. Si parla della giovane Nancy, che a sedici anni, nei suoi “jeans sbiaditi” e “maglione verde”, preparava torte alle ciliegie, violava il coprifuoco serale con il suo ragazzo conosciuto a scuola e, dalla sua stanza colorata, sognava Manhattan, la stessa Manhattan a cui apparteneva Capote. Non passano che una decina di pagine e, con lo stesso freddo candore, si parla nuovamente di Nancy, ma questa volta di una Nancy irriconoscibile, perché come altro poteva essere dal momento che le avevano “sparato alla nuca tenendo l’arma a pochi centimetri”? Si parla del suo orsacchiotto che, come lei, fissava il vuoto, e giaceva a fianco dei suoi piedi e delle sue mani legate. 

Non c’è una speranza di giustizia, non c’è pena e non c’è tristezza nel racconto della fine di Nancy e dei suoi familiari, c’è solo il freddo gelido delle notti di novembre del Kansas, ma forse anche di quelle di New York. 


Ci sono poi le storie e le parole dei due esecutori della strage, i due assassini che uccisero i Clutter senza pietà e che vennero, per questo, condannati a morte e giustiziati pochi mesi prima della pubblicazione di “A sangue freddo”. 

Capote li cita tacitamente nell’incipit del suo romanzo, parlando di “collaboratori” che, grazie a numerosi colloqui, resero possibile la stesura del libro. Ed è proprio a loro, Dick e Perry, gli unici due attori ancora in vita della tragedia e dunque gli unici che Capote poté conoscere in prima persona, che egli rivolge le più personali attenzioni. 


È dalle loro parole, trasmesse e arricchite dalle opinioni dell’autore, che sappiamo che Richard ‘Dick’ Hickock, “non aveva sensibilità per musica e poesia”, ma, non solo, era “intensamente solido, invulnerabile, assolutamente mascolino”

Allo stesso modo, sappiamo che Perry Smith, con cui si vocifera Capote ebbe addirittura un flirt (voci non verificate, ndr), “poteva essere come un bambino”, che passava ore intere a succhiarsi i pollici per poi “montare su tutte le furie più in fretta di dieci indiani ubriachi”

Sappiamo che Perry era “un giovane duro, freddo, con occhi sereni e un po’ sonnolenti”, e, a questo punto, non si può non capire come “freddo” sia realmente la parola chiave di questo libro e non solo perché è una delle tre parole che ne compongono il titolo. 

Freddo è Perry; ma freddo è anche il sangue che, in effetti, si gela nelle vene leggendo la dettagliatissima descrizione dell’omicidio, così come freddo è quel Kansas nel cuore dell’America e così come fredda, e allo stesso tempo bellissima, e la penna di Truman Capote in questo libro. 


“A sangue freddo” è un libro duro da leggere e da digerire. È un libro complicato, che ha richiesto sei anni per venire alla luce e che quei sei anni li dimostra tutti. Eppure è un libro che va letto, un libro necessario, anche solo per ammirare il talento letterario assoluto che l’ha scritto.

Cristina Vitagliano

09 March 2019

Réquiem for the Jilted Generation - Gabriele Nero (Español)


The Prodigy aparecieron como un puñetazo en el estómago en la escena musical de los años noventa, años en que los adolescentes se volvían locos por grupos de pop desechables, como Backstreet Boys, Spice Girls, Take That, mientras que los mayores se apresuraban a recoger el legado de los Beatles, con una gran cantidad de grupos musicales hechos por guaperas con Ray-Ban negros, montados por las principales compañías discográficas: Oasis, Verve, Blur. Las megas bandas de rock de los 80 comenzaron a guiñar el ojo al mainstream (recuerdo como una tragedia el lanzamiento de Load de Metallica, a la que aún hoy no puedo dar una explicación) y la escena underground, después de la muerte de Cobain, estaba dominada por el grunge 


Para aquellos que en 1997 (año de lanzamiento de The Fat of the Land) vivían su adolescencia, Prodigy ha representado mucho más que una banda o un icono, como he leído en estos días.

Los sociólogos y las discográficas se calentaban la cabeza para dar una   identidad, etiqueta a la generación de esos chicos que hubieran sido adultos en el 2000: Generación X, MTV Generation... en resumen, intentaban clasificarlos y  estudiarlos para poder desarrollar el modelo de los años ochenta: "Los años de plástico", menos rebelión y más aperitivos! Pero tomando como inspiración el nombre de su segundo álbum, Music for the Jilted Generation, estaba tomando forma y conciencia de sí una nueva generación, abandonada (Jilted!) a si mismo desde el principio, por la que The Prodigy representaron la primera transgresión, el primer concierto, la primera experiencia extrema.




A través de MTV, con Firestarter, como unos pirómanos locos, The Prodigy entraron en la imaginación y en los walkman de miles de fanáticos en todas las latitudes del mundo. Cuatro punkis de la provincia inglesa, que parecían salidos de Trainspotting: un rubio, genio de la electrónica, un negro de dos metros de altura que cantaba a una velocidad vertiginosa, dos bailarines callejeros, uno de origen caribeño y el otro disfrazado como un sátiro poseído o un payaso psicópata, que evocaba a IT el payaso de Stephen King. Esta descripción sería suficiente para hacer que la gente entienda lo que eran The Prodigy a mitad de los noventa.


Pero The Prodigy no eran solo imagen, ¡lejos de eso! De hecho, el grupo inglés tuvo éxito con algo difícil de repetir en la historia de la música: contaminar dos de los géneros de música underground más extremos, el techno-rave y el hardcore metal, y tener éxito en las listas de ventas de todo el mundo ¡llevaron lo más underground al mainstream! Desde el punto de vista musical, The Prodigy fueron los pioneros de la mezcla entre la música electrónica y otros géneros que no fueran la música dance o el pop, como en los años ochenta. El concepto musical de Prodigy, luego se declinó al metal con todo el Nu-Metal de los primeros años 2000 (Korn, Slipknot, Tool), mientras que en el lado electrónico empezaba a experimentar con el funky (Daft Punk, Gorillaz), e incluso monstruos sagrados como Madonna y David Bowie, en los años siguientes, recurrieron a los sonidos techno-jungle. 




Si tuviera que definirlos en una palabra, diría Avanguardia, porque The Prodigy, además de componer música que nadie se había atrevido a imaginar antes de entonces, lograron encarnar el espíritu de su tiempo, creando una nueva estética real, como solo los grandes artistas saben hacer. Sus videoclip grabados en los barrios marginales post-industriales con cámaras de baja resolución, montados con imágenes a ritmo epiléptico, básicamente eran la descripción perfecta de lo que estábamos viviendo. De adolescente solo tenías que ponerte los cascos, comenzar a andar por la ciudad con The Prodigy a tope,y mirarte alrededor para ver los mismos escenarios: fábricas abandonadas, ciudades dormitorios, fincas en ruina, yonquis y casas ocupadas; en estos momentos entendías que tu furia pertenecía a una furia más grande, a una furia mayor.
The Prodigiy han legitimado la rebelión de mi generación, tal como lo hicieron los Rolling Stones para la generación de  los años sesenta, o el punk para los de los años setenta.



The Jilted Generation fue la última que se formó en un mundo analógico, y la primera que tuvo que relacionarse con el mundo del trabajo totalmente digitalizado; la última que recuerda a los trabajadores del turno nocturno salir de los almacenes industriales, y que en los noventa, en esas mismas fábricas, entonces abandonadas, organizó rave memorables. Hoy, en esos mismos espacios, nos vamos todos  de compras: ahora son centros comerciales de reciente apertura.  


Los rave y la fiestas terminaron demasiado pronto y, quien más quien menos, todos nos hemos vueltos burgueses. Una de las pocas cosas que nos quedaban eran The Prodigy: la esperanza de un nuevo concierto, un nuevo disco, una nueva exageración. Como cuando después de años de silencio en 2009 salieron con Invaders must die, para recordarles a las nuevas y viejas generaciones quien eran  The Prodigy: tres locos ingleses que pasaban de todo y que con su música querían hacer mover el culo al mundo entero!


La última vez los vi en Valencia, en un festival donde, como siempre pasa, habían amontonado grupos sin criterio. Los Many Street Preacher, para los nostálgicos de los ochenta, seguidos por los Kaiser Chiefs, para que los jóvenes hipster pudiesen agitar sus barbas al sonido de "RubyRubyRuby uuuhhh", y que después de 2 horas de pop barato de supermercado, dejaron el escenario al milagro, a ellos: The Prodigy. Mientras las barbas y las camisas a cuadros se retiraban, desde el fondo emergían pequeñas flotas de hormigas negras, de treinta años de todas las formas (¡desafortunadamente alguien no muy en forma!) Tomaron posesión de las primeras filas, y mirando a mi alrededor pensé que aunque abandonados durante el pasaje de la civilización post-industrial a la digital, aún estábamos allí, antes del escenario de The Prodigy!


No estoy a contaros lo detalles de lo que fue el concierto. Solo puedo deciros que la emoción de estar a pocos metros de distancia de la nave espacial, y la consecuente explosión de luces y sonidos, capitaneada por Liam Howlett y sus sintetizadores y drum machine, Maxim el titán, y Keith Flint, con su voz distorsionada y limpia, tajante como una  Les Paul, puede compararse con la euforia de un gol en la final de la copa de tu equipo favorito, pero de dos horas de duración, o mucho más trivialmente, con un orgasmo de la misma duración. Si los habéis visto en vivo, sabéis de lo que estoy hablando, en el caso de que no, lo siento mucho por vosotros. Sí, porque al final del concierto sentías la misma sensación de cuando bajando de las montañas rusas, piensas: "¡Otra vez! ¡Quiero hacerlo de nuevo! "



Hacia finales de 2018, The Prodigy lanzaron No Turists, sus último álbum. A diferencia de todos los otros grupos que, con el paso de los años, tienden a suavizar su producción The Prodigy se presentaron con otro álbum más extremo que el anterior.


Pero el 4 de marzo de 2019, la muerte de Keith Flint, puso fin a todo esto. No habrá nuevo single, nuevo álbum, no habrá otro concierto de The Prodigy. Sin embargo, para aquellos que los habían visto recientemente o habían escuchado su nuevo álbum, The Prodigy todavía parecían estar en gran forma, aún enojados y con mucho más que decir.

Ahora que los arrepentimientos y los detalles de la dinámica de su muerte ya no nos sirven de nada, queda el hecho que la Jilted Generation, ya sin referencias, y a punto de ser devorada por una nueva generación de nativos digitales, ha sido abandonada por su profeta esquizofrénico, se ha quedado huérfana de su culto más puro y extremo: ¡The Prodigy! La Jilted Generation frente a la muerte de Keith Flint quedó aturdida, sin más furia, sin más voz, sin más música.


Gabriele Nero