"Sono un alcolizzato. Sono un tossicomane. Sono un omosessuale. Sono un genio". Così parlò Truman Capote, in un’intervista, descrivendo se stesso e la sua vita. Un Oscar Wilde del ‘900, lo definirono in seguito, forse più per la dichiarata omosessualità che per ipotetiche similitudini letterarie e caratteriali. Perché, mentre il più celebre dandy della letteratura britannica era noto per la sua personalità eccentrica e arguta ma comunque bonaria e per la sua estetica all’avanguardia per l’epoca, ma comunque elegante, lo scrittore americano, che tutto il mondo conobbe per “Colazione da Tiffany”, venne descritto da chi lo conosceva in toni ben più controversi e taglienti, proprio come la sua scrittura. Ed è proprio quel Truman Capote che ci interessa raccontare in questo articolo, quello che, nel 1959, dopo aver letto un articolo di cronaca nera sul New York Times, si lasciò alle spalle il ponte di Brooklyn e lo scintillio della Grande Mela per avventurarsi in un mondo che più distante non poteva essere, in un microcosmo di America fatta di contadini e granai, nel cuore del Kansas, dove iniziò il lungo percorso di interviste e indagini che lo portò, sei anni dopo, a completare la stesura del romanzo “A sangue freddo”. Il libro, un crudo reportage dedicato all’efferato massacro di un’intera famiglia di agricoltori ad opera di due criminali, conta una lunga serie di protagonisti, il primo dei quali non può che essere il Kansas.
Si tratta di quello stesso Kansas in cui Dorothy abitava prima di essere portata a Oz dal tornado, ma questa storia non trova spazio per uomini di latta e streghe dell’ovest; nel Kansas di Truman Capote c’è l’America rurale per bene e cattolica, che caccia i fagiani, lavora la terra a testa bassa e si affida alla provvidenza; ma allo stesso tempo c’è l’America rurale più sofferente e più disperata, dove si mangiano latte condensato nei giorni di festa e banane marce nei giorni normali, dove si raccolgono cicche di sigaretta da terra e l’alcol da poco è l’unico palliativo alle sofferenze e alla violenza della vita.
Truman Capote era molto, molto lontano da casa quando iniziò a scrivere “A sangue freddo”, eppure, forse, trovò lui stesso un palliativo alle sofferenze nel comporre il libro che, a suo stesso dire, gli cambiò la vita, entrando e spiando in modo quasi morboso le vite dei vari attori, tanto vivi quanto morti, di quella crudele tragedia. Proprio il suo modo, incredibilmente freddo e allo stesso tempo quasi spensierato e noncurante, di raccontare il massacro della famiglia Clutter, gli attirò numerose critiche, tra cui quella di aver agito con “voyeurismo cinico”. Quel romanzo, che, secondo le sue speranze, avrebbe dovuto regalargli il Premio Pulitzer, portò critici e lettori dell’epoca a interrogarsi su quel cinismo, a chiedersi se fosse giusto “osservare” un crimine come dal buco di una serratura, raccontandone fatti, dettagli e minuzie, senza mai cambiare tono, senza mai mettere in mezzo moralità, giudizio e, soprattutto, pietà.
Si parla dei quattro membri della famiglia Clutter, della loro vita semplice, fatta di biscotti alla noce di cocco, chiesa, granai, caccia ai conigli, chiesa e tutto ciò che componeva la loro banalmente umana vita contadina. Si parla della giovane Nancy, che a sedici anni, nei suoi “jeans sbiaditi” e “maglione verde”, preparava torte alle ciliegie, violava il coprifuoco serale con il suo ragazzo conosciuto a scuola e, dalla sua stanza colorata, sognava Manhattan, la stessa Manhattan a cui apparteneva Capote. Non passano che una decina di pagine e, con lo stesso freddo candore, si parla nuovamente di Nancy, ma questa volta di una Nancy irriconoscibile, perché come altro poteva essere dal momento che le avevano “sparato alla nuca tenendo l’arma a pochi centimetri”? Si parla del suo orsacchiotto che, come lei, fissava il vuoto, e giaceva a fianco dei suoi piedi e delle sue mani legate.
Non c’è una speranza di giustizia, non c’è pena e non c’è tristezza nel racconto della fine di Nancy e dei suoi familiari, c’è solo il freddo gelido delle notti di novembre del Kansas, ma forse anche di quelle di New York.
Ci sono poi le storie e le parole dei due esecutori della strage, i due assassini che uccisero i Clutter senza pietà e che vennero, per questo, condannati a morte e giustiziati pochi mesi prima della pubblicazione di “A sangue freddo”.
Capote li cita tacitamente nell’incipit del suo romanzo, parlando di “collaboratori” che, grazie a numerosi colloqui, resero possibile la stesura del libro. Ed è proprio a loro, Dick e Perry, gli unici due attori ancora in vita della tragedia e dunque gli unici che Capote poté conoscere in prima persona, che egli rivolge le più personali attenzioni.
È dalle loro parole, trasmesse e arricchite dalle opinioni dell’autore, che sappiamo che Richard ‘Dick’ Hickock, “non aveva sensibilità per musica e poesia”, ma, non solo, era “intensamente solido, invulnerabile, assolutamente mascolino”.
Allo stesso modo, sappiamo che Perry Smith, con cui si vocifera Capote ebbe addirittura un flirt (voci non verificate, ndr), “poteva essere come un bambino”, che passava ore intere a succhiarsi i pollici per poi “montare su tutte le furie più in fretta di dieci indiani ubriachi”.
Sappiamo che Perry era “un giovane duro, freddo, con occhi sereni e un po’ sonnolenti”, e, a questo punto, non si può non capire come “freddo” sia realmente la parola chiave di questo libro e non solo perché è una delle tre parole che ne compongono il titolo.
Freddo è Perry; ma freddo è anche il sangue che, in effetti, si gela nelle vene leggendo la dettagliatissima descrizione dell’omicidio, così come freddo è quel Kansas nel cuore dell’America e così come fredda, e allo stesso tempo bellissima, e la penna di Truman Capote in questo libro.
“A sangue freddo” è un libro duro da leggere e da digerire. È un libro complicato, che ha richiesto sei anni per venire alla luce e che quei sei anni li dimostra tutti. Eppure è un libro che va letto, un libro necessario, anche solo per ammirare il talento letterario assoluto che l’ha scritto.
Cristina Vitagliano