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25 November 2020

Recensione di Sangue e Latte - di Lavinia Stornaiuolo

 



“A furia di adattarmi mi ero snaturato” 

Il punto esatto della presa di coscienza. Quello che arriva sempre nella vita, in un dato momento, forse il momento di maggiore improbabilità dell’esistenza. È lì che inizia il discorso. 

Sangue e latte è una narrazione che si vuole sospesa, che si vuole doppia: profondamente radicata nel passato, nelle tradizioni, nel tempo ancestrale della superiorità dei ruoli e dei legami sociali, dei ritmi della terra e dei suoi profumi. È una narrazione che si vuole divisa, fra l’amore e il disagio, fra il sé sociale e il sé individuale. 

Attraverso un movimento binario del racconto si tracciano molteplici dimensioni, mentre le stesse sortiscono i propri effetti in un gioco di cerchi concentrici in cui ogni riflessione, evento, ricordo, parola, inevitabilmente si inglobano vicendevolmente, costruendo le strade del protagonista, e tracciandone le vie interiori, sempre più intricate. 

“Le cose dovevano essere perfette” 

È qui che nasce la scissione interiore, nel cercare di definire la perfezione, di farne una misura del proprio mondo, quando invece la perfezione si rivela costantemente non esser tale, in tutte le sue forme. È la parola che svela, la parola che si offre come elemento sanatore. Ma è la stessa parola che svolge un duplice ruolo nella narrazione personale: affonda le radici nel tentativo inconscio di distruggerle, e nell’affondarle trova la forza per spingere oltre, verso una liberazione che ricombina gli aspetti dell’esistenza. La parola consente di non abbandonare il passato, ma al contempo esprime la profonda forza di fissare il passato, farne dipinto nella memoria, per poter riplasmare il presente, che è già futuro. 

Sangue e latte è un manifesto della parola, nella misura in cui la stessa offre rinascita, oblio, ritorni. La parola come identità, capace di proiettare dentro per poi scaraventare fuori. Il discorso in cui ognuno può trovare le combinazioni attraverso le quali attribuire i sensi. 

“Cominciare a interrogarsi su ciò che si vuole (...) Intensamente”




27 April 2018

FAVOLE DI LIBERTÀ - Antonio Gramsci


INTRODUZIONE:

JUANJO MONSELL

COPERTINA: 
RICCARDO CECCHETTI

TRADUZIONE DELL'INTRODUZIONE:
LAVINIA STORNAIUOLO 

Antonio Gramsci (Ales, 22 gennaio 1891 – Roma, 27 aprile 1937) è stato un filosofo, politico e giornalista italiano. Nato in una umile famiglia sarda, studiò lettere a Torino, dove entrò in contatto con gli ideali marxisti. Deluso dalla deriva del Partito Socialista, decise di fondare insieme ad alcuni comunisti il ​​Partito Comunista Italiano, nelle cui fila venne eletto deputato. Con l'ascesa al potere di Mussolini, Gramsci fu riconosciuto come uno dei più intransigenti intellettuali anti-fascisti e per questo venne incarcerato dal regime nel 1927. In prigione si dedicò allo studio e alla scrittura della sua grande opera: i “Quaderni del carcere”.

"Favole di libertà" è una raccolta di storie popolari reinterpretate da Gramsci e adattate al contesto socio-politico del suo tempo. La complessità delle idee contenute e la semplicità con cui sono trattate, essendo destinate all'iniziazione del bambino al mondo adulto, conferiscono a questo libro un grande valore letterario e pedagogico.

"Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza."
                                                                   Antonio Gramsci