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25 September 2023

CONTRA LA CARROÑA POÉTICA SUBVENCIONADA - por Rafael Becerra

 




Tengo un sueño persistente, obsesivo, y lo peor, real. La poesía pierde la calle secuestrada por burócratas, por andróginos cerebrales que creen dominar un arte que se escapa entre los dedos de los que se jactan de ser lo que no son. Un ejército de junta letras, de pega versos, se arremolina alrededor de las instituciones olisqueando culos de consejeros, concejales, y diputados. Buscan la caricia en la cabeza que les abra la puerta de la subvención, del certamen, de su pestilente propuesta apoyadas por instituciones a los que la palabra cultura les parece una catedral llena de humedades que rellenan con poliespan y luces creyendo que ofrecen la palabra y el arte al pueblo.

Y el pueblo se lo cree.

Someten su pensamiento y se someten a la moda, a la vertiente, a la novedad ovillada en caramelo podrido que confunde el camino. No es cosa fácil escribir un poema, ni pintar un cuadro, ni sufrir el proceso de cualquier creación, si dejamos en manos mediocres estas cuestiones corremos el riesgo de claudicar nuestra libertad. La poesía por mucho que lo pretendan no tiene hogar, y mucho menos institución apolillada que la abandere. La poesía es libre y se manifiesta en los lugares y personas más insospechadas, es susurro, es luz y oscuridad, es guarida y prisión, es muerte y es vida, y por lo tanto impredecible e insobornable. No se crean todo lo que escuchan, sobre todo si es ofrecido en bandeja de plata, su mirada limpia es fundamental, búsquela en la calle, en los ancianos, en los niños, en la podredumbre o en la belleza básica, pero no pretenda encontrarla en festivales plagados y organizados por camarillas de aprovechados que no saben ni sabrán, por muchos libros que escriban, de lo que están hablando.

Las personas que amamos el verso libre de ataduras, profundo, espontáneo, flamígero y luminoso, negamos y manifestamos nuestra repulsa frente a los apesebrados rebaños de adalides culturales, funcionarios que pretenden prender la belleza sin saber que forma tiene, que encabezan reuniones y organizan festivales a costa del dinero público con el fin de vivir del cuento, aparentando unos conocimientos que no tienen y una sensibilidad de la que carecen. Son doctos en mediocridad, panfletarios con las tripas llenas de gases que es donde modelan sus inmundicias literarias que son celebradas por sus mecenas que encumbran a sus pupilos con un coro de rebuznos.

El poema es indómito y salvaje, asalta tu sueño, te aborda como un pirata en el océano, o te abruma como una lluvia de estrellas. Sus dominios son la vida y la muerte, la oscuridad y la luz, lo inexplicable y lo sublime, pero, sobre todo, se encuentra a años luz de los cuadernos de la ambición y de los falsos poetas que solo sueñan con el reconocimiento, una cuadra caliente y el morral lleno de cereal.

Rafael Becerra


13 November 2021

VALE UNA VITA: Valentino Rossi, l'ultimo eroe! - di Gabriele Nero

 


«Quanti anni avevate nel 1996?» Questa è la domanda che dovete porvi per capire lo stato d’animo di chi si appresta a salutare uno dei più grandi campioni dello sport di tutti i tempi: Valentino Rossi.

Alcuni di voi non erano nati, altri ancora nell’età in cui si ha poca coscienza. Io nel 1996 avevo 13 anni, era l’estate tra la terza media e la prima superiore, il periodo in cui il mondo ti si apre davanti, in cui è tutto nuovo, tutto una scoperta! Il sogno di tutti i teenager dell’epoca erano gli scooter, ovvero la rivisitazione in chiave anni Novanta del mito italiano della Vespa. Zip, Typhoon, F10 e il mitico Fifty erano gli oggetti del desiderio per un’intera generazione, e forse per vendere qualche motorino in più, la Motogp appariva negli schermi delle tv italiane.

Quelli che vi dicono di essere stati tifosi di Valentino dalla prima gara, sono come quelli che sostengono di aver visto il concerto dei Ramones a Milano: fondamentalmente dei cazzari. In quegli anni si tifava per Biaggi, come per la Ferrari, quel sentimento nazional-popolare che uno segue per inerzia. Prova del fatto che la maggior parte di noi comprava lo scooter nero rigorosamente Aprilia, come la moto di Biaggi. Allo stesso tempo tutti rimanemmo sorpresi da questo ragazzino rompicoglioni, che ad ogni vittoria metteva su degli show incredibili, mentre fino ad allora si vedeva solo il vincitore che faceva il giro d’onore, al massimo impennava un paio di volte la moto. Così ci appassionammo alle serie inferiori sperando sempre in una vittoria di Rossi per di assistere alle sue gag.


Ricordo perfettamente il momento in cui diventai tifoso di Valentino. Quando dopo aver vinto il Mondiale 250 del 1999, gli chiesero se lui fosse il nuovo Max Biaggi, e lui con estrema naturalezza rispose: «Semmai è Biaggi che deve prendere esempio da me: io il mondiale l’ho vinto quest’anno, lui no». Da quel momento fu chiaro che bisognava schierarsi. Mentre Biaggi continuava a non vincere e a mostrarsi per quello che era, un romanaccio spaccone che appena perdeva dava la colpa alla moto, nel 2000 poi si formarono dei veri e propri schieramenti: Biaggi, Capirossi o Rossi? «Io tifo per Valentino, perché è testa di cazzo!», risposi in una di quelle discussioni da sabato sera. La domenica Valentino vinse la sua prima gara in 500!

E da lì cominciò lo spettacolo! Capisco che per chi non li ha vissuti sia difficile immaginare che cosa fosse il Dottore in quegli anni! Era come assistere a un cartone animato in cui in un modo o nell’altro Valentinik, anche quando la gara sembrava compromessa, riusciva a raddrizzarla! Giocava con gli avversari con lo stesso sadismo del gatto con il topo, era attore e regista di uno degli spettacoli più seguiti del pianeta.

Fare l’elenco delle sue imprese, e della felicità che ci ha regalato gara per gara, anno per anno, diventerebbe ripetitivo, specie in questi giorni. Ci guardiamo indietro e scopriamo che sono passati 25 anni, e pure che Valentino ha vinto l’ultimo mondiale una vita fa, nel 2009, ma la gente continua ad amarlo come quando vinceva a mani basse. Questo perché Valentino in questi 25 non ci ha insegnato solo a gioire delle sue gare, ma con lui siamo cresciuti, lo abbiamo visto passare da enfant terrible, a campione imbattile, capace di passare dalla Honda alla Yamaha, che non vinceva un campionato da più di 10 anni, e portarla subito a vincere la prima gara ed il titolo, diventando, di fatto, a poco più di 25 anni, un’icona, una leggenda delle moto.


In quegli anni era facile essere tifosi di Rossi, era rassicurante, bello, e spesso dopo le belle nottate con gli amici, ci si svegliava tardi la domenica passando direttamente dalla lasagna, alla partenza della MotoGp. Per tanti di noi, il periodo d’oro della carriera di Valentino ha rappresentato il periodo più bello della nostra vita. Il momento in cui si impara a farsi spazio nel mondo dei grandi, passare alla cilindrata superiore. Valentino in quegli anni era inarrestabile, ma oltre al merito sportivo, quel ragazzo simile al tuo compagno di scuola, stava dando lezioni a tutti. Le sue vittorie non erano mai banali: qualifiche discrete, pessime partenze, recupero con sorpassi mozzafiato e vittoria per distacco.

Ma per capire l’unicità di Valentino bisogna guardare fuori dalla pista. Nato da una coppia di “genitori un blue jeans”, come di moda tagli inizi degli anni Ottanta, di quelli in cui i figli chiamavano i genitori per nome per intenderci, e che puntualmente si separavano dopo pochi anni, il piccolo Vale scelse di continuare il sogno del padre, ex pilota di MotoGp, ritiratosi in seguito a un bruttissimo incidente ad Imola nel 1982. «Mi sono sempre piaciuti quelli che sanno fare qualcosa, quelli che sanno disegnare, o suonare uno strumento... io non sono capace! L’unica cosa che so fare è andare in moto e cerco di farlo nel miglior modo possibile», dichiarava il Dottore poco più che bambino: una vera e propria dichiarazione poetica! Esattamente come quella di Maradona che al tempo in cui giocava nei los Cebollitas, dichiarava che il suo sogno era giocare con la Nazionale e vincere il Mondiale.

La storia del Valentino vincente dimostrava il fatto che lo sport non è solo questioni di meri numeri ma di emozioni. Il fine non giustifica mai il mezzo, è più importante come si fanno le cose. Le persone di tutto il mondo hanno iniziato ad amare Valentino per quella sua spontaneità che, nel bene e nel male, ha saputo sempre anteporre a tutto. Ha dimostrato di poter essere il migliore senza scimmiottare nessuno, cambiando, crescendo, non diventando la macchietta di se stesso, e allo stesso tempo cambiando il suo sport, essendo un perfezionista ma senza rinunciare alle goliardate da bar!

Dal 2010 in poi, però la carriera di Valentino ci ha raccontato altro. L’eterno ragazzo diventato uomo, passò attraverso l’infortunio del Mugello, gli anni tristi in Ducati, e la perdita dell’unico amico e possibile erede nel puddock, passando a pochi centimetri e pochi secondi dopo l’impatto con l’asfalto dal corpo esanime di Marco Simoncelli. Da lì in poi molti si sono allontanati dalle moto, eppure fatemi dire che sono gli anni in cui ho davvero capito la sua grandezza, la sua tenacia e il suo amore incondizionato per le moto. Dopo quei due anni terribili, di nuovo tutti lo davano per finito, come nel 2006. Si sarebbe potuto ritirare da leggenda vivente già nel 2012, altri giovani piloti erano in ascesa con moto molto più performanti, eppure c’era quel decimo titolo da inseguire, quella chimera per un motociclista dell’era moderna, per cui dopo aver accettato, il fallimento e averci messo la faccia per l’errore Ducati, accettò di essere la seconda guida dell’”amatissimo” Jorge Lorenzo.


«Quando nel mondo appare un vero genio, lo si riconosce dal fatto che tutti gli idioti fanno banda contro di lui», diceva Jonathan Swift, e avendo parlato di idioti e Lorenzo è inevitabile parlare di Marquez e di quel maledetto 2015. Il Dottore aveva creato il suo capolavoro, 14 anni dopo il primo titolo e a 7 dall’ultimo, aveva calcolato punto su punto, piazzamento su piazzamento, e due vittorie su Marquez, uno con l’avversario che finiva a terra e l’altra con una spallata all’ultimo tornantino per cui lo spagnolo gliel’aveva promessa: «A partire da ora saprò cosa fare con Valentino». Il resto è stato poi davanti agli occhi di tutti: la gara de Philip Island, la conferenza bomba della Malesia, i primi giri killer di Marquez e il contatto-calcio, quello che volete. Il mondo che si divideva tra chi stava con Vale, e tra chi non aspettava altro da anni (dai tempi della storia delle tasse) per saltare sul vecchio leone ferito. La storia, o semplicemente la gara più vista nella storia della MotoGp ha raccontato altro: Valentino sorpassa 20 piloti e da ultimo arriva quarto; i tre piloti spagnoli uno dietro all’altro come sul tram per difendere i 5 punti di Lorenzo, che a titolo incamerato dirà candidamente: «Ringrazio gli altri piloti perché sono stati bravi; in un altro tipo di gara Marc avrebbe attaccato, ma hanno voluto che il titolo rimanesse in Spagna». Durante i festeggiamenti di quel titolo a casa sua, a Mallorca, la moto di Lorenzo andò a fuoco. Nient’altro da aggiungere.

Anzi qualcosa sì! Anche in quel caso Valentino è stato un esempio, di come davanti alle ingiustizie, quando gli idioti si coalizzano contro di te, è giusto prenderli a calci nel culo, e smascherare gli ipocriti, a costo di mettere in gioco ciò a cui tieni al mondo! Il problema era proprio quello: Valentino è cresciuto nel puddock, già con suo papà, è cresciuto in mezzo ai piloti, quelli veri, quelli con cui se c’era qualcosa da chiarire si finiva a spintoni sotto il podio, come con Biaggi, ma si correva tutti per per vincere. «Marc è tutta la settimana che dice che darà il massimo, che punterà a vincere, ma dopo quello che ha fatto oggi è veramente uno che se ne sbatte i coglioni», ovvero Valentino vittima della congiura dei bimbiminchia, ragazzini perbene, ottimi per la pubblicità dei prodotti antibrufoli, con i loro sorrisi perfetti, e già addestrati dalla tenera età alla società dello spettacolo, su ogni tipo di media. Niente a che vedere con le corse in Ape-car dandosi le sportellate per le stradine di Tavullia. Lo sport di oggi come specchio della nostra società, in cui il significato si è perso, mentre il significante è diventato solo apparenza per vendere qualcos’altro: marketing.

Marquez, ovunque vada nel mondo, al di fuori della Spagna, viene ancora oggi fischiato, perché per la sua infantile ripicca ha distrutto il sogno di migliaia di persone che vedevano in quel titolo il coronamento di una carriera unica, ha distrutto il sogno di chi viaggiando su uno scooter scassato, sognava di essere ad Assen, al Mugello o nel cavatappi di Laguna Seca: ha distrutto il sogno del Motociclismo.

Spesso quando si parla di sportivi controversi si dice che non spetti a loro educare i giovani, ma alla scuola e ai genitori. Dall’altra parte i moralisti affermano che i grandi campioni, invece debbano essere d’esempio. Per quello che mi riguarda Valentino ha rappresentato più di un esempio, ha rappresentato l’ispirazione massima, un principio etico e estetico a cui tendere sempre: “fai ciò che vuoi, fallo al massimo. Se sbagli dando il massimo, non fa niente. Sorridi, mettici la faccia e riparti più convinto di prima”. E poi da italiano all’estero, Valentino è stato un po' quello che è stato Joe DiMaggio per Fante, ma
 negli anni in cui al pronunciare la parola “Italia”, la prima reazione era una risata e la seconda “Bunga-bunga”, ha rappresentato davvero uno dei pochi momenti di riscatto per il nostro paese, al pari dell’Oscar di Sorrentino. Geni compresi in tutto il mondo, sempre un po’ di meno in Italia... chissà perché.

Durante questo quarto di secolo le gare di Valentino hanno rappresentato qualcosa di più di un semplice evento sportivo. Nei momenti più bui, quelli attraverso i quali siamo costretti a passare tutti, la gara della domenica, immaginare una nuova impresa, o nei lunghi inverni senza corse ad aspettare la nuova moto, il nuovo campionato, era un pensiero sempre positivo e di speranza verso un qualcosa di nuovo e sempre entusiasmante. E poi capisci che questo tuo sentimento estremo è condiviso da tanti altri, dalla marea gialla che sin dai primi anni ha colorato le gradinate dei circuiti di tutto il mondo.

Valentino è stato felicità e spensieratezza, ci ha insegnato quanto sia importante mantenere dentro di noi i bambini che eravamo, capaci di emozionarci per il miracolo della fisica e tecnologia che sono le moto e il primordiale istinto di voler arrivare primo. Il solo parlare di lui strappa un sorriso e fa brillare gli occhi a me come al ragazzo pakistano che lavora nel kebap. Valentino ci ha accompagnato nella nostra crescita, e con lui e forse anche grazie al suo esempio, abbiamo capito l’importanza del divertimento nel continuare a fare le cose.

«Io non avrei mai potuto fare come lui, visto che per me il gareggiare corrispondeva a vincere, a stare davanti a tutti ed a farlo costantemente. Avrei fatto un enorme fatica a correre per tanti anni senza poter essere al top, senza avere i mezzi giusti per giocarmela con i migliori» ha detto pochi giorni fa Casey Stoner, in pista il suo rivale più forte di sempre. 2015 a parte Valentino ci ha dimostrato anche quanto sia importante accettare anche il lato ludico dello sport, facendo parte del grande circus, creato da lui, pur non essendone più un protagonista principale.


Scherzando (ma nemmeno troppo) negli ultimi anni dicevo che la mia gioventù sarebbe finita quando Valentino avrebbe smesso di correre. Il Dottore ci ha regalato qualche anno in più, scegliendo di non lasciare nulla di intentato, e ora che siamo diventati adulti forse è ora di guardarsi alle spalle e vedere la grande bellezza di questi anni. No, non esisterà un altro Valentino, così come non torneremo ad avere vent’anni. E se è vero che millennio è iniziato con attentati terroristici, crisi economiche, pandemie, ci ha anche regalato improvvisi momenti di felicità grazie a Valentino Rossi da Tavullia! E sono orgoglioso di essermi svegliato alle 5.00 di mattina di domenica per vedere i gran premi del Giappone, o dell’Australia, di averlo considerato sempre come un dogma: il mio mito da quando avevo 13 anni al giorno d’oggi che ne ho 40!

Allora dove eravate nel 1996? Non avevamo telefonini, e il massimo divertimento era mettere 5.000 lire nello scooter per arrampicarci sulle strade dove giravano anche quelli con le moto vere, quelle potenti. Scorrendo l’album dei ricordi, ripensando a tutte le gare, le emozioni e il divertimento non scorriamo solo la carriera del grande campione, ma rivediamo il film delle nostre vite. Ecco accavallarsi i ricordi di estati al mare, ex fidanzate, amici che chissà dove saranno finiti, persone che non ci sono più, incrociarsi con quella gara, quella rimonta, o quell’altra celebrazione. Il 46 è stato il grande filo giallo che ha unito ricordi pieni gioia e di gioventù. Non so come sarà la vita da lunedì, e non solo quella di Valentino ma un po’ quella di tutti noi. In un certo modo, per chi lo ha seguito, ha cambiato la nostra visione della vita, ha rappresentato un modo di essere. In un mondo pieno di stronzi Valentino Rossi è stato il mio unico eroe!

Comporta movimento. Del riflesso, del pensiero, dell’attenzione, del gesto. Genera vantaggi, libidini, un pizzico di rischio, un piacere esclusivo. Il piacere di guadagnare qualcosa per raggiungere qualcosa. Un traguardo, un compimento. Velocità come eliminazione dei tempi morti, del tempo perduto, della noia, talvolta. Velocità come sistema di vivere, di vincere, di stare al mondo, essendo il mondo in piena accelerazione. È una aspirazione e, spesso, una scelta, oppure una attitudine che amplifica sensazioni, reazioni, gusto. La velocità costringe a una cura adatta, a una capacità specifica, altrimenti comporta un errore, una caduta, un rimpianto. Ci vuole testa e fisico, per la velocità. Quella padronanza che permette di apprezzare la lentezza, quando essere veloci non serve affatto» (Valentino Rossi)


Gabriele Nero
Valencia 13 Novembre 2021












16 September 2021

El retrato de Charles Bukowski - por Rafael Becerra

 


Atravesar un pantano como todo el mundo puede adivinar tiene muchas cosas malas: las picaduras de mosquitos, el fango, la suciedad, la humedad y todas las que cada cual pueda imaginar. También tiene cosas buenas siempre dependiendo de hacía donde se vaya.

Hoy me adentro en ese pantano imaginario para hablar de un escritor amado y odiado a partes iguales: Charles Bukowski, muchas veces arrastrado a una mitomanía que él siempre rehusó. Las razones por las que un tipo como Bukowski tiene fama mundial se nos pueden escapar, pero lo que nadie puede obviar es que de alguna forma él dió el salto de las revistas “pulp” y las publicaciones underground a las grandes editoriales. ¿Y qué tiene su escritura para cautivar a millones de lectores? En mi humilde opinión creo que la sinceridad. Desconozco si el autor fue alguna vez consciente de la fama que se le venía encima, pero estoy seguro de que conocer a fondo su propia realidad lo llevaba a transgredir con descaro cualquier tipo de norma ya fuera literaria o de urbanidad. El resto, una legión de lectores deseosos de sumergirse en lo diferente, lo provocativo, lo sugerente: pura pornografía literaria. No es difícil imaginarlos comprando aquellas publicaciones camufladas entre otras revistas, abrirlas en soledad, en busca de lo diferente, del descaro.

Bukowski era un tío con gracia, un tocapelotas graduado en los caminos del alcohol y la indiferencia, nada afín a fanfarrias patrióticas ni militares. La vida lo había maleado de tal modo que el engaño no hacía mella en él. De modo que sus relatos están bañados en humor, a menudo rozando el cachondeo, y otras dotados de una crudeza y profundidad que nos deja “con las patas temblando”.

Y aquí llega la poesía donde la bofetada deja marca, donde el dolor y la decepción supuran y entonces entendemos algo de la soledad de aquel borracho que agarra el bolígrafo y el cuaderno desesperado y escribe acongojado para evitar clavar la pluma en su corazón. Todavía en las noches en lo más profundo de las ciudades, donde la mano farsante del bienestar no llega, es posible encontrar personajes similares a él, seres graduados en auto-destrucción que van dejando caer versos y gestos que nunca estarán plasmados en la historia de la literatura, y cuyo fin es una licenciatura en suicidio.

No se compliquen la vida, lean a Bukowski, se van a reír, aunque alguno se muerda el labio hasta sangrar, merece la pena, pero no crean que han descubierto nada, no es uno de los nuestros, no lo olviden, está muy lejos de parecerse a cualquiera de nosotros, de hecho es inalcanzable por la sencilla razón de que su tiempo es otro, los escenarios de sus relatos son irreconocibles en nuestro tiempo, ahora hay demasiado maquillaje y por desgracia creemos tener todo bajo control. Solo una cosa, cuando en la soledad de la noche, escuchen a un borracho cantando por la calle, orinando en la puerta de su casa, indiferente a las amenazas y a policía local, acuérdense de aquel tipo que andaba tambaleándose de bar en bar con los bolsillos llenos de hojas manuscritas. ¡Salud!


26 July 2021

GLORIA FUERTES: LA PULCRITUD DE LA RESISTENCIA - por Rafael Becerra



Los censores de la época no veían ningún peligro en aquella señora de aspecto estrafalario que leía poemas a los niños. No suponían que representara ninguna amenaza, más bien, con su aspecto y sus lecturas la consideraban un entretenimiento para los más pequeños.

Gloria supo engañarlos, como si fuese el flautista de Hamelin, se atrajo a los más pequeños a la poesía, mediante juegos de palabras, historias locas y sus “humanos animalizados” que no animales humanizados. Sentada en aquel sillón de mimbre, con las gafas en la punta de la nariz, su eterna sonrisa, Gloria leía. Y los niños que la rodeaban seguían sus historias con la boca abierta. ¿Cuántos de los que fuimos testigos de aquello seguimos sus pasos? Desde aquella televisión en blanco y negro, donde tímidamente se colaban locos utópicos que con sus canciones, poemas, obras de teatro, abrían la mente de niños que los absorbían como esponjas, empapándose de aquella creatividad esperanzadora en aquel mundo gris.

Mucho más tarde descubrí los poemas de Gloria Fuertes, me sumergí de lleno en su poesía dolorosa y sincera, nostálgica de una infancia arrebatada y sobrada de posguerra, melancólica y amarga, y al mismo tiempo sembrada de un sentido del humor casi esperpéntico, dadas las condiciones de esa existencia enferma, donde la represión, la amenaza constante y las imposiciones ideológicas eran el pan nuestro de cada día.


Llevaba su carga con resignación, sin dejar que ésta la aplastara, con versos construyó un andamiaje que sujetara su desdicha, con humor apuntaló su existencia, y con los niños encontró la esperanza de que no todo estaba perdido, que en aquellos pequeños, tal vez, estuviera plantada la semilla del cambio, que esa generación que llegaba sabría encontrar otro camino distinto. No sé si fue así. Puede que todos esperemos lo mismo, que otros lleguen y lo hagan mejor. Que los errores se mueran de aburrimiento de tanto repetirlos. Lo verdaderamente importante es que no se rindió, creyó encontrar una vía de escape, un océano donde perderse para poderse encontrar: La Poesía. Y supo con maestría demostrar que sus versos emocionaban, que curaban, y que desde la sencillez podía contar y aliviar.

No la tomaban en serio, “ellos” los tocados por la historia, los que se sentaban al lado de su dios, esa horda que se apropiaba de la inteligencia creyendo que estaban llamados a “ser” y que se fagocitaban unos a otros mientras se ahogaban en sus mentiras y su mediocridad.

Gloria los sobrevivió a todos, está aquí con nosotros, en cada niño que descubre sus poemas, sus animales, sus historias, y en cada adulto que se acerca a su obra, para descubrir la cercanía de sus propios anhelos.

Rafael Becerra 





 

08 July 2021

La eterna belleza de la palabra: un retrato de Emily Dickinson - por Rafael Becerra

 




Existió una poetisa hecha de vapor de agua, de junco y arcilla, y de soplo de brisa de la tarde.
Existió esa mujer casi transparente que no nació para ser desentrañada, que nada tenía que ver con el mundo de los hombres y mujeres que la rodeaban. Ella vivió en una realidad que se nos escapa, de la que hemos desertado y a la que hemos traicionado, y sin embargo, la gente de su tiempo la clasificó pinchándola como a una mariposa en un sombrío cajón acristalado. Pero a ella eso no le importó; como mística, transitó sendas que no están a la vista de cualquiera, en sus menguadas fronteras físicas descubrió toda la grandeza de la existencia, rodeada de flores, de insectos, de amaneceres y de lluvia. Condensó en su bella poesía una página universal del libro de la vida.


Como un ser milenario que aprendió del detalle más insignificante de la naturaleza, la poetisa describe la grandeza de lo pequeño, sutíl engranaje sin el cual esta máquina perfecta no funcionaría.
¿Es posible púes dar con los secretos del alquimista del mundo?
Sí, pero solo una clase de seres están a la altura de vislumbrarlos, una clase nada común, nada pretenciosa; seres que permanecen en silencio maravillados y sumergidos en el más sencillo pensamiento, y algunos, generosos y plenos de amor nos cuentan sus secretos, nos esbozan delicadamente lo profundo y extraordinario de su labor de hormiguita. Su pensamiento tejido con sencillez y belleza, la urdimbre necesaria para la finalización de un tapiz que roza la perfección.
Existió una vez una poetisa, que nos regaló la belleza de unos versos eternos.


Otros pies van y vienen por mi huerto,
otros dedos la tierra han removido;
un trovador que se posó en el olmo
va diciendo el lugar de mi retiro.

Jugando hay otros niños en el prado
y debajo, cansada, se ha dormido otra gente;
y todavía vuelve, pensativa,
la primavera, y puntual, la nieve.


Rafael Becerra






24 June 2021

FARSI MALE CON LO YOGA . Recensione di YOGA di Emmanuel Carrère - Enrico Romanetto



L’errore più semplice da commettere davanti alle trecento paginette di Yoga è quello di berlo come un bicchiere di acqua ghiacciata. Sensazione di fresco nell’immediato: Emmanuel Carrère è tornato. Poi gola e stomaco cominciano a raffreddarsi più del dovuto, ci si sente gonfi e si rischiano i crampi. Carrère si sfoga nel pieno di una nuova crisi di mezz’età che lo scrittore parigino non risolve nell’artificio del romanzo, con la violenza trasformata in catarsi come fa con Serotonina il suo non dichiarato antagonista letterario, Michel Houellebecq, che viene citato con un timore quasi adolescenziale. No. Carrère concede al lettore solo la possibilità di ricostruire una trama tutta immersa nel reale. Il suo. La sua vita è il baricentro egotico di tutti gli avvenimenti attraverso cui l’autore si ritrae mentre passa da un ritiro nel silenzio della meditazione Vipassana, fino al ricovero in una clinica psichiatrica e all’elettroshock. Nel mezzo, le sue manie. Prima blandite da una sorta di nuova coscienza, che l’ormai sessantenne si impone, poi combattute a colpi di scariche, annotate come in una sorta di diario esperienziale. 


Ossessioni borghesi, un po’ puerili, come quella di non riconoscersi nel grande scrittore che avrebbe voluto essere, oppure, una sessualità ancora vivace. È qui Carrère dà il meglio in termini di voyeurismo, citando anche Torino e celebrando la Holden di Alessandro Baricco come la migliore scuola di scrittura creativa. La letteratura c’entra poco, perché la vicenda non riguardo altro che una copula, mancata, con una giovane allieva incrociata durante una vacanza in Grecia. Quasi un ritiro per convalescenti agiati e pieni di guai incorniciato dall’isola in cui approdano i migranti più disperati, le cui storie diventano un’altra volta controcanto della propria vita agra come non era avvenuto A Calais. L’ultimo rigo ripaga della pazienza. Emmanuel Carrère si rivela per quello che nessuno si sarebbe atteso all’inizio. Lo stesso di prima, salvo far infuriare sicuramente più d’uno dei suoi “fedelissimi” con una scena finale in cui, davvero, dovrebbe concentrarsi tutta la curiosità del lettore. Così da scoprire perché non abbiamo tra le mani il volumetto sullo Yoga che l’autore si era ripromesso di scrivere.

Enrico Romanetto

27 May 2021

EMANUEL CARNEVALI: LA DESDICHA DE LA LUCIDEZ - por Rafael Becerra


Al lector de poesía le ocurren muchas cosas. Llega un momento en que su bagaje es tan amplio que encuentra difícil sorprenderse, esto no quiere decir que no disfrute con ella, pues la variedad a lo largo de la historia es tremenda. Pero a veces se entra en un estado de conocimiento pedante que lo puede distraer de la obra que tiene delante.

Hace poco ha llegado a mis manos el libro: Molestando a América. De Emanuel Carnevali. Y puedo decir sin reparos que es el puñetazo en el estómago más fuerte que he recibido en muchos años.

Hay poetas que jalonan la historia de la poesía embarrando los jardines floridos, no abundan, y siempre rondaron los límites de la marginalidad y de la autodestrucción. A mí siempre me atrajeron como un imán, admiro la belleza, la destreza en el lenguaje, pero por encima de todo, me rindo ante la crudeza, ante la realidad versada de forma magistral. Esto tal vez tenga que ver con el devenir de mi propia vida, con una característica que la ha marcado: la decepción. Emanuel era un decepcionado. Su rastro va dejando miguitas de amargura destilada que me hace suponer un espíritu marcado a fuego, una voluntad anómica que no esperaba nada de los demás ni de la vida. Esta febril existencia tenía por fuerza que marcar herrumbrosamente su estilo creativo. Y arribando a la tierra prometida ya sabía lo que se iba a encontrar. Puede que sus compañeros de viajes soñaran con un destino definitivo donde poder integrarse y consolidar una sociedad en ciernes, pero el poeta no. Él estaba condenado a la expectación, a revelar la realidad de una fotografía sin encuadre. Podría decirse que el decepcionado nace, no se hace. Los poemas de Carnevali tienen la crudeza, la fina ironía, el desenlace, y la estructura del que aspira el aire a bocanadas en un ambiente asfixiante para poder sobrevivir. Aquí no hay bromas, se nota la seguridad del que va dominando el páramo, del que vive en el fango conociendo sus secretos.


Criado en Florencia, emigró a América con dieciséis años. La diferencia con las grandes urbes americanas como Nueva York o Chicago, ciudades despiadadas armadas como necesidad, frente a la suya propia, creada y amada por sus habitantes que la dotaban de vida propia, debió de impresionarlo de tal modo, que dio pie a su expresión poética, ajeno a modas y posturas. El rastro de sinceridad, de amargura es tal, que no sorprende el oscurantismo al que ha sido relegado. Pero esto no deja de ser una etiqueta, lo importante es la belleza que emana de su obra, imágenes crueles, sarcásticas, reales. En sus propias palabras, una confesión definitiva:

tú me devolviste por todas las cosas que te llevé
un espiritu de rebelión, 
árido, enfermizo, y estúpido.

La sinceridad acapara todos sus escritos, y sus actos, que muchos considerarán censurables. Estamos habituados por falta de empatía a juzgar con rapidez, pero todo esto no es más que una cascarilla que ponemos para no mostrar las propias armas y el alma débil y aterrorizada que nos habita.

¿Cuántos poetas? ¿Cuántos ignorados, perdidos, enterrados? La misión fundamental es encontrarlos, descubrirlos, publicarlos. Ahí está el aire a respirar. Un amigo atemporal que nos susurra ayudándonos a sobrevivir, a llevar nuestra decepción con dignidad.

Rafael Becerra 


25 May 2021

El retrato de Henry David Thoreau - por Rafael Becerra

“La verdad es que hoy en día no somos, incluidos los caminantes, sino cruzados de corazón débil que acometen sin perseverancia empresas inacabables. Nuestras expediciones consisten solo en dar una vuelta, y al atardecer volvemos otra vez al lugar familiar del que salimos, donde tenemos el corazón. La mitad del camino no es otra cosa que desandar lo andado. Tal vez tuviéramos que prolongar el más breve de los paseos, con imperecedero espíritu de aventura, para no volver nunca, dispuestos a que solo regresasen a nuestros afligidos reinos, como reliquias, nuestros corazones embalsamados. Si te sientes dispuesto a abandonar padre y madre, hermano y hermana, esposa, hijo y amigos, y a no volver a verlos nunca; si has pagado tus deudas, hecho testamento, puesto en orden todos tus asuntos y eres un hombre libre, si es así, estás listo para una caminata”.

Esto que acabamos de leer pertenece al ensayo: Caminar de Henry David Thoreau, sin lugar a dudas uno de los textos fundacionales de lo que muchos años más tarde sería conocida como la generación BEAT. Thoureau a través de sus escritos se convierte en maestro de unos jóvenes ávidos de conocimiento. El americano tiene espíritu aventurero, en todos sus antepasados hay un colono o un explorador, (también un invasor y un saqueador, amparados por su dios y su idea del destino manifiesto) hombres y mujeres que dejaron todo para encaminarse a lo desconocido de una tierra salvaje e inexplorada, en busca de una vida mejor. Walt Whitman les dedicó sus cantos, y esa idiosincrasia impregnó el espíritu de aquella generación posterior dedicada a viajar física y espiritualmente en busca del conocimiento y del propio lugar en el universo.

Henry David Thoreau, ensayista, poeta, topógrafo, fabricante de lápices, disidente nato y maestro de la prosa, nació en Concord, Massachusetts en 1817 desde pequeño ya dio muestra de su espíritu individualista y contestatario, heredado de su abuelo que fue uno de los instigadores de la “rebelión de la mantequilla” la primera protesta estudiantil de las colonias. Fue profesor y junto con su hermano abrieron una academia de gramática en Concord donde introdujo conceptos progresivos tales como caminatas al aire libre, o visitas a negocios y fábricas locales.


Fue en Concord donde conoció a Ralph Waldo Emerson, padre del trascendentalismo, y su círculo de amistades íntimo. Thoreau abrazó la nueva doctrina en un principio y colaboró en la revista que dirigía Emerson con algunos ensayos. Se convirtió en tutor de sus hijos y más tarde trabajaría en la fábrica de lápices familiar. Pero su verdadera pasión eran la literatura y la naturaleza. Años después sintió la necesidad de vivir en la misma y se trasladó a una finca propiedad de Emerson, de aquella experiencia nació: Walden, o la vida en los bosques. 

En julio de 1846 Thoreau tiene un encuentro con el recaudador de impuestos local que le insta a abonar sus atrasos de seis años. Thoreau se niega debido a su oposición a la guerra mexicano-americana y a la esclavitud, lo que lo llevó a pasar una noche en la cárcel, en contra de su voluntad, su tía pagó la fianza, a raíz de esta experiencia traumática, el joven escribe Desobediencia Civil un verdadero manifiesto a favor de un individualismo ascético y extremo, en él llega a proponer la abolición de todo gobierno, lo que convertiría a este texto en un referente para movimientos libertarios de todo el mundo. Un hombre pasional que construyó su vida alrededor de su amor por la naturaleza. Un asceta cuyos libros te llevan a buscarte a ti mismo, un espíritu libre que nos regaló una obra pura y hermosa.

Caminar es una exposición de la filosofía de deambular, la defensa de un “pensamiento salvaje”. Su ironía y el rumbo vagabundo que por momentos toman sus reflexiones, nos tonifica el alma y nos traslada una gran paz. 
Es necesario que Thoreau nos recuerde que “el aburrimiento no es sino otro nombre de la domesticación.”

Rafael Becerra

19 May 2021

Il ricordo di Franco Battiato scritto da Eduardo Margaretto, suo biografo in Spagna

 


A Madrid gli anni Ottanta stavano per finire. Mentre le notti di Malasaña correvano veloci, alcuni di noi avevano già intuito che la parola Movida si stava convertendo in un brand di patriots to arms  molto lontani da La fantasia dei popoli che è giunta fino a noi ... mentre la movida è arrivata perfino nelle notti italiane del XXI secolo. Al tempo brancolavo nel buio cercando di scrivere la biografia di Franco Battiato. Cátedra Ediciones mi aveva dato un anticipo. Ero rimasto particolarmente colpito dalla lucidità del "pensautore" siciliano ...Le barricate in piazza le fai per conto della borghesia / Che crea falsi miti di progresso / Chi vi credete che noi siamo, per i capelli che portiamo? / Noi siamo delle lucciole che stanno nelle tenebre / Up patriots to arms, engagez-vous / La musica contemporanea, mi butta giù


Poi ricevetti una telefonata: Battiato accettava la mia intervista all'Hotel Ritz di Madrid. Io al Ritz?! Allora non avevo nemmeno i vestiti per entrarci, ma andai. «Come ti descriveresti?» gli chiesi di getto, senza pensarci due volte, mentre si stava ancora sedendo. Mi guardò negli occhi e mi disse: «Sono quello che, un tempo, si sarebbe chiamato "un uomo alla ricerca"... anche se, alla fine, non trovo mai niente». Come se la verità fosse il ritmo delle piante al sole sui balconi, o quel re del mondo che ci tiene prigioniero il cuore. La conversazione scorreva fluida fino a quando il dicografico mi tirò platealmente la manica della camicia... il mio tempo era scaduto. Battiato lo guardò accigliato: «Lascialo continuare, sa molto di me». Così presi il coraggio a due mani e gli dissi ancora: «Mia madre è nata in Sicilia, come te, a Messina, e mia nonna a Napoli». Si alzò per andarsene, mi tese la mano e mi disse: «Eduardo, prima di morire,  devi assolutamente salpare sulla barca che parte da Napoli e approda a Messina all'alba... quando ti avvicini alla Sicilia, la nebbia del mattino si dirada e ti fa scoprire cose incredibili».

Questo sentimento popolare nasce da meccaniche divine  

Dovrei cambiare l'oggetto dei miei desideri 

Non accontentarmi di piccole gioie quotidiane


Che non si parli più di dittature 

Se avremo ancora un po' da vivere 

La primavera intanto tarda ad arrivare

Eduardo Margaretto

18 May 2021

El recuerdo de Franco Battiato por Eduardo Margaretto, su biógrafo español

 


Se acababan los años ochenta en Madrid. Mientras apurábamos las noches de Malasaña algunos ya intuíamos que la palabra Movida se iba a convertir en una marca de patriotas alejada de la fantasía de los pueblos que han llegado hasta nosotros… incluso en las noches italianas del siglo XXI. Yo andaba entonces por calles oscuras intentando escribir la biografía de Franco Battiato. Cátedra Ediciones me había dado un anticipo. Me impactó la claridad del ‘pensautor’ siciliano… las barricadas en la plaza las hacéis por cuenta de la burguesía que crea falsos mitos de progreso / quién creéis que somos por el pelo que llevamos / nosotros somos luciérnagas que están en las tinieblas / la música contemporánea me deprime / y no es culpa mía si existe la imbecilidad

Y entonces recibí una llamada… Battiato acepta tu entrevista en el Hotel Ritz de Madrid. ¿Yo en el Ritz? Ni ropa tenía entonces, pero allí que me fui. «¿Cómo te ves a ti mismo?» le solté sin pensármelo dos veces en cuanto se sentó a la mesa. Me miró a los ojos y dijo: «Soy lo que antiguamente se llamaba un hombre que busca… aunque al final no encuentre nada». Como si la verdad fuese el ritmo de las plantas en los balcones, o ese rey del mundo que nos tiene prisionero el corazón. Fluía la conversación hasta que el comercial de la discográfica sin disimular me estiró de la manga de la camisa… se había terminado mi tiempo. Battiato le miró frunciendo el ceño: «Déjale que siga, éste sabe mucho de mí». Y entonces se lo dije: «Mi madre ha nacido en Sicilia, como tú, en Messina, y mi abuela en Nápoles». Se levantó para irse, me extendió la mano y dijo: «Antes de morir, Eduardo, tienes que subirte al barco que de madrugada sale desde Nápoles hacia Messina… cuando te acercas a Sicilia la bruma de la mañana se abre y descubres cosas increíbles».

Este sentimiento popular nace de mecánicas divinas 

Tendría que cambiar el objeto de mis deseos 

no conformarme con pequeñas joyas cotidianas 


Que no se hable más de dictaduras 

si aún nos queda algo por vivir

La primavera tarda en llegar

 

Eduardo Margaretto

17 May 2021

El retrato de Ernest Thompson Seton - por Rafael Becerra


A lo largo de la historia de la literatura encontramos constantemente la figura de animales, en muchos casos, humanizados. Nacidos en todas las culturas de cualquier parte del mundo, éstos se prestan a ser la voz de la sabiduría, de la bondad, o representar directamente la maldad, o la astucia. Sin embargo, más allá de la literatura infantil o juvenil, sembrada por Kipling, Disney, Lewis Carroll, los hermanos Grimm, o Andersen. Se situan otros autores que basan sus escritos directamente en la observación de la naturaleza. Entre estos, me atrevería a decir que los más certeros serían Jack London y Ernest Thompson Seton. De este último me gustaría hablar.

Nacido el undécimo de catorce hijos, en Inglaterra, a la edad de seis años, su numerosa familia se traslada a Canadá. El entorno salvaje, despierta en el niño un interés inusitado, que se dedica a observar y dibujar la naturaleza. Su familia no comparte la afición del pequeño, pero debido a una afección, es enviado a los quince años y durante el verano a una granja en Lindsay. Es allí, donde de mano del granjero Willian Blackwell y su hijo George donde el joven Ernest ve sus deseos cumplidos. Junto con George acamparon en los bosques, procurando vivir como los indios habían hecho antes del advenimiento de los rostros pálidos. De estas vivencias saldría su libro: Dos pequeños salvajes (1903) 

Sus veranos en la granja orientaron las energías e intereses de Ernest Thompson Seton hacía el estudio de la naturaleza. Fundó los “Woodcraft Indians” un grupo juvenil inspirado en la ética y habilidades de los pieles rojas. No sería un camino fácil. Pero todas sus publicaciones estuvieron dirigidas hacía la vida salvaje. Historias que el mismo describía, explicando en forma de ficción la realidad de la existencia de los animales y sus formas de pensar.



Sus historias te acercan al mundo natural bajo una perspectiva única, haciendo que te preguntes y te plantees cómo sería vivir como un animal constantemente amenazado, por ejemplo, el conejo. Un ser que pasa su vida en peligro siendo la base de la dieta de muchos depredadores. Seguimos las corredurías de perros pastores, cuya fidelidad va más allá de su propia vida. Recorremos los bosques con astutos lobos, con instintos desarrollados para escapar del hombre. Leer sus cuentos y relatos te hacen mirar hacía las ignoradas montañas de otro modo, te remueve por dentro, bajo el traje de urbanita, se despierta otro ser que te habita, las casi olvidadas voces de tus ancestros que corrieron por esos bosques compartiendo con los animales el ansía por sobrevivir.

Desgraciadamente el mundo literario lo ha relacionado siempre con cuentos para niños, las adaptaciones de sus libros a animaciones infantiles como: El bosque de Tallac fueron cruciales para encasillarlo en este género. Personalmente encuentro en esos relatos mucha sabiduría, la misma crueldad de la naturaleza se muestra sin tapujos. En ellos la vida y la muerte, la despiadada intervención humana, la desconfianza, y nuestro alejamiento progresivo y destructivo del mundo natural. Seres humanos y animales obligados a entenderse, a compartir los frondosos bosques, sabiendo cada uno de ellos donde están los límites. En definitiva, unos cuentos apasionantes que sin discusión convierten a Ernest Thomson Seton en el mejor intérprete que ha tenido el mundo animal.
Rafael Becerra 

06 May 2021

El retrato de Gertrude Stein en POETRY (Traducción de Rafael Becerra)


Desde que se trasladó a Francia en 1903 hasta su muerte en Neuilly-sur-Seine en 1946, la escritora estadounidense Gertrude Stein fue una figura central en el mundo del arte parisino. Defensora de la vanguardia, Stein contribuyó a dar forma a un movimiento artístico que exigía una forma de expresión novedosa y una ruptura consciente con el pasado. El salón parisino del número 27 de la rue de Fleurus, que compartía con Alice B. Toklas, su compañera y secretaria de toda la vida, se convirtió en un lugar de encuentro para los "nuevos modernos", como llegaron a llamarse los jóvenes artistas de talento que apoyaban este movimiento. Entre aquellos cuyas carreras ayudó a lanzar estaban los pintores Henri Matisse, Juan Gris y Pablo Picasso. Lo que estos creadores lograron en las artes visuales, Stein lo intentó en su escritura. Experimentadora audaz y autoproclamada genio, rechazó la escritura lineal y orientada al tiempo, característica del siglo XIX, por una literatura espacial y orientada al proceso, específicamente del siglo XX. El resultado fueron poemas y ficciones densos, a menudo desprovistos de trama o diálogo, que dieron lugar a frases memorables ("La rosa es una rosa es una rosa"), pero no fueron libros de éxito comercial. De hecho, su único éxito de ventas, The Autobiography of Alice B. Toklas, unas memorias de la vida de Stein escritas en la persona de Toklas, era una narración estándar, de composición convencional.

Aunque los editores comerciales despreciaron sus escritos experimentales y los críticos los tacharon de incomprensibles, las teorías de Stein interesaron a algunos de los escritores con más talento de la época. Durante los años que transcurrieron entre la Primera y la Segunda Guerra Mundial, un flujo constante de escritores estadounidenses e ingleses expatriados, a los que Stein apodó "la Generación Perdida", acudieron a sus veladas. Ernest Hemingway, F. Scott Fitzgerald y Sherwood Anderson fueron algunos de los que estuvieron expuestos a su búsqueda literaria de lo que ella llamaba una "descripción exacta de la realidad interior y exterior". Si Stein influyó o no en estos y otros grandes escritores modernos -incluido James Joyce, cuya obra maestra de la escritura modernista, el Ulises, fue compuesta después de su contacto con Stein- sigue siendo un tema de controversia. Sin embargo, los críticos están de acuerdo en que, sea cual sea su influencia, su propia obra, y en particular su escritura experimental, está muy descuidada. Como escribió Edmund Wilson en Axel's Castle: A Study in the Imaginative Literature of 1870-1930, "La mayoría de nosotros se resiste a sus soporíferos rigmaroles, a sus encantamientos ecolálicos, a sus catálogos de números que suenan a medias; la mayoría de nosotros la leemos cada vez menos". Sin embargo, recordando especialmente sus primeros trabajos, seguimos siendo conscientes de su presencia en el fondo de la literatura contemporánea".

Si la importancia de Stein como figura literaria ha quedado relegada en gran medida a un papel secundario, no hay que subestimar su influencia como personalidad. Era una figura imponente, dotada de una notable confianza en sí misma y de unos modales imponentes. Cuando las parejas acudían a su salón, Stein solía entretener a los hombres, mientras llevaba a las esposas a sentarse con Toklas. En el Dictionary of Literary Biography, James R. Mellow sugirió que el estilo de vida poco convencional de Stein y "su apertura a las tendencias de vanguardia pueden haber sido fomentados por su errática vida familiar".


Nacida en Allegheny, Pennsylvania, en 1874, Stein se mudó con frecuencia y estuvo expuesta a tres idiomas diferentes antes de dominar uno. Cuando tenía seis meses, sus padres la llevaron a ella y a sus dos hermanos mayores, Michael y Leo, a una estancia europea de cinco años. A su regreso, se instalaron en Oakland, California, donde Stein creció. A los 18 años, siguió a su hermano Leo a Baltimore, y mientras él asistía a Harvard, ella se matriculó en el Harvard Annex (rebautizado como Radcliffe College antes de graduarse). En esta época, el principal interés de Stein era el estudio de la psicología bajo la dirección del célebre psicólogo William James. Con su estímulo, publicó dos artículos de investigación en la Harvard Psychological Review y se matriculó en la Johns Hopkins Medical School. Tras suspender varios cursos, Stein abandonó el programa sin obtener el título. En su lugar, siguió a Leo primero a Londres y luego a París, donde se había instalado a principios de 1903 para seguir una carrera como artista. "París era el lugar", se cita a Stein en Gertrude Stein's America, de Gilbert A. Harrison, "que nos convenía a quienes íbamos a crear el arte y la literatura del siglo XX".

Nada más llegar, Stein se sumergió en la comunidad bohemia de la vanguardia, descrita por su hermano Leo como una "atmósfera de propaganda". Con la ayuda de su hermano mayor, Michael -un coleccionista de arte que vivía a pocas manzanas de distancia-, Stein empezó a acumular una colección de arte moderno propia. Además, a los 29 años se dedicó en serio a escribir.

Stein publicó su primer -y algunos dicen que mejor- libro en 1909. Tres vidas está compuesto por tres cuentos cortos, cada uno de los cuales investiga la naturaleza esencial de su personaje principal. De ellos, "Melanctha", el retrato de una joven mulata que sufre una infeliz aventura con un médico negro, ha sido especialmente elogiado. La historia, una reelaboración de un relato autobiográfico que Stein escribió sobre una infeliz aventura lésbica, "intenta trazar la curva de una pasión, su ascenso, su clímax, su colapso, con todos los cambios y modulaciones entre la disensión y la reconciliación a lo largo del camino", escribió Mark Schorer en El mundo que imaginamos.

El diálogo y otras facetas de la historia reflejan la influencia de la formación psicológica de Stein con James. "La identidad de sus personajes, tal como se revela en los hábitos y ritmos inconscientes del habla, la clasificación de todos los tipos posibles de personajes y el problema de exponer como un presente continuo los conocimientos que se habían acumulado a lo largo de un período de tiempo" son cuestiones jamesianas que afloran en el relato, según Meredith Yearsley en el Dictionary of Literary Biography. Dado que pocos escritores -si es que alguno- habían aislado estos temas de esta manera tan particular, la obra sigue siendo significativa. "Tanto por razones históricas como por su mérito intrínseco, 'Melanctha' debe clasificarse como uno de los tres o cuatro relatos cortos completamente originales que se han producido en este siglo", concluye Oscar Cargill en su Intellectual America.

A medida que desarrollaba su oficio, Stein se volvió más experimental en su escritura. Como sus obras no se publicaron en el orden en que fueron compuestas, es difícil trazar la progresión de sus experimentos, pero los críticos señalaron The Making of Americans: Being a History of a Family's Progress (escrita entre 1906 y 1908 y publicada en 1925) como un hito. El libro, una novela de 900 páginas sin diálogo ni acción, no tuvo interés comercial y permaneció inédito durante 17 años. Comenzó como la crónica de una familia representativa y evolucionó hasta convertirse en una historia de toda la raza humana, reflejando tanto el interés de Stein por la psicología como su obsesión por el proceso de la experiencia. Al no confiar en la narración para transmitir la complejidad del comportamiento humano, Stein empleó la descripción para lograr lo que ella llamaba "un presente continuo". Comparó esta técnica con la de una cámara cinematográfica, que congela la acción en fotogramas separados. Aunque no hay dos fotogramas exactamente iguales, cuando se ven en secuencia presentan una continuidad fluida.


Katherine Anne Porter, al escribir una crítica de The Making of Americans, comparó la experiencia de leer el libro con entrar en "una gran espiral, una espiral lenta, cada vez más amplia y sin medida que se desenrolla horizontalmente. Las personas de este mundo parecen estar inmóviles en cada etapa de su progreso, cada una está naciendo, llegando a todas las edades y muriendo simultáneamente. Se percibe que es un mundo sin movilidad, todo tiene lugar, ha tenido lugar, tendrá lugar; por tanto, nada tiene lugar, todo a la vez". Porter sostenía que este tipo de escritos no se basaban en juicios morales o intelectuales, sino simplemente en las observaciones de Stein sobre "actos, palabras, apariencias que dan su visión; limitada, personal en extremo, prejuiciada sin calificación, basada en suposiciones fundadas en el vacío de la pura sinrazón". En su obra I Hear America, Vernon Loggins describió el lenguaje de Stein como "pensamiento al desnudo, no pensamiento vestido con los ropajes de la retórica gastada". Mark Schorer también señaló su enfoque orientado al proceso: "Su modelo ahora es Picasso en su fase cubista y su ambición una plasticidad literaria divorciada de la secuencia y la consecuencia narrativas y, por tanto, del significado literario. Intentaba que la literatura dejara de ser un arte temporal y se convirtiera en un arte puramente espacial, que utilizara las palabras sólo por sí mismas".

Stein llevó esta técnica aún más lejos en Tender Buttons: Objetos, comida, habitaciones. Publicado a su costa, el libro contiene pasajes de escritura automática y se configura como una serie de párrafos sobre objetos. Desprovisto de lógica, narración y gramática convencional, se asemeja a un collage verbal. "Tender Buttons es a la escritura... exactamente, lo que el cubismo es al arte", escribió W.G. Rogers en When This You See Remember Me: Gertrude Stein in Person. "Tanto el libro como el cuadro aparecieron en, pertenecen a, no pueden ser eliminados de nuestro tiempo. Esa cualidad particular en ellos que suele ridiculizarse, lo dispar, lo disperso, el subirse a un caballo y cabalgar en todas direcciones, la atomización de sus respectivos materiales, la visión distorsionada, todo eso no fue imaginado sino extraído de su época única. Si el siglo XX tiene sentido, también lo tienen Stein y Picasso". A pesar de su inaccesibilidad, Rogers calificó Tender Buttons de "esencial, porque aquí está el tipo de Stein que lanzó mil burlas; esto representa la gran ruptura con el tipo de libros a los que habíamos estado acostumbrados, y una vez que has sucumbido a él, puedes soportar cualquier cosa, te has convertido en un lector de Stein".

Stein explica la teoría en la que se basan sus técnicas en Composition as Explanation. Pero incluso los críticos que entendían su enfoque se mostraban escépticos ante su capacidad para reducir el lenguaje a la abstracción y seguir utilizándolo de forma que tuviera sentido para alguien más allá de ella misma. Como señaló Alfred Kazin en el Reporter, "dejaba fluir la corriente de sus pensamientos como si un libro fuera sólo un receptáculo para su mente. ... Pero el problema de estos pensadores puros en el arte, la crítica y la psicología es que la mente es siempre un instrumento, no su propio tema claro". Cuando Stein adoptó temas convencionales, como hizo en sus memorias, The Autobiography of Alice B. Toklas, tuvo un éxito rotundo.

La Autobiografía de Alice B. Toklas relata las experiencias de Stein en el colorido mundo del arte de París en el periodo de entreguerras. Fue escrita por Stein desde el punto de vista de Toklas, una técnica que "permite a la señorita Stein escribir sobre sí misma mientras finge ser alguien muy entregado a sí mismo", dijo el colaborador de New Outlook Robert Cantwell. A pesar del enorme egoísmo que se escondía detrás de la empresa, los lectores acudieron en masa a la publicación (que sería el único bestseller de Stein), fascinados por el vívido retrato de un mundo genuinamente creativo. Como señaló Ralph Thompson en Current History, "el estilo es ingenioso, conscientemente ingenuo, a veces pomposo, pero nunca es aburrido ni oscuro, y a menudo es muy divertido". La Autobiografía de Alice B. Toklas debería convencer incluso a los más escépticos de que la señorita Stein tiene talento y algo que decir".

Además de escribir libros, Stein también contribuyó con libretos a varias óperas de Virgil Thompson, especialmente Cuatro santos en tres actos y La madre de todos nosotros. Al año siguiente de la publicación de su autobiografía, Stein regresó a Estados Unidos para celebrar el éxito de la puesta en escena de Cuatro santos en el Wadsworth Atheneum de Hartford (Connecticut) y realizar una gira de conferencias. A pesar de que había estado ausente durante 30 años, Stein fue tratada como una reina y su regreso fue noticia de primera plana en los principales periódicos. Describió su visita de seis meses en un segundo libro de memorias, Everybody's Autobiography. Una vez concluida su gira, Stein regresó a Francia, donde permaneció el resto de su vida, aunque se trasladó de París a un pueblo cercano a la frontera suiza durante la Segunda Guerra Mundial. Muchos de sus escritos posteriores tomaron la guerra como tema, en particular Brewsie y Willie, que trataba de captar la vida de los soldados estadounidenses comunes a través de su discurso.


Una historia de no haber seguido siendo amigas muchas veces: La correspondencia entre Mabel Dodge y Gertrude Stein, 1911-1934 sigue la relación de las dos mujeres, que se vieron pocas veces, a través de sus cartas, recogidas por la editora Patricia R. Everett. La pareja se conoció en París en 1911, y cuando Stein pasó un tiempo con Dodge en su villa italiana, se inspiró para escribir Portrait of Mabel Dodge at the Villa Curonia (Retrato de Mabel Dodge en la Villa Curonia), que la colaboradora del New York Times Book Review, Julie Martin, calificó como "un encadenamiento impresionista de vívidas imágenes que sugieren los tejemanejes físicos, emocionales y sexuales en la villa, en particular las aventuras nocturnas de Dodge con el joven tutor de su hijo". Martin señaló que las memorias de Dodge insinúan "algunos coqueteos muy intensos" entre Dodge y Stein. Dodge se casó cuatro veces y, además de Stein, recibió a Bernard Berenson en Europa, así como a Alfred Stieglitz, Lincoln Steffens, Carl Van Vechten y su antiguo amante John Reed, en Nueva York. Cuando se trasladó a Taos (Nuevo México), entre sus invitados se encontraban el psicoanalista Carl Jung y los escritores Thornton Wilder, Willa Cather y Frieda y D.H. Lawrence.

Cuando Dodge se trasladó a Nueva York, contribuyó a acercar el arte moderno al público estadounidense. En su exposición de 1913 puso a la venta un número de la revista Art and Decoration, que contenía un artículo en el que Dodge comparaba la escritura de Stein con el cubismo de Picasso. Algunos, incluido Dodge, han especulado con que su amistad se enfrió por los celos de Toklas, pero las diferencias de opinión sobre cómo promover los escritos de Stein en Estados Unidos pueden haber tenido más que ver con el deterioro de su relación. Dodge no aprobaba la elección de Stein de los editores, calificando la casa de "absolutamente de tercera categoría". Su correspondencia se ralentizó y Stein ignoró la invitación de Dodge a su matrimonio con el nativo americano Tony Luhan, cuya cultura había adoptado Dodge tras su traslado a Taos. La última vez que las mujeres tuvieron contacto fue en 1934.

Se publicaron dos colecciones de la obra de Stein: Gertrude Stein: Escritos 1903-1932 y Gertrude Stein: Writings 1932-1946. Richard Howard escribió en el New York Times Book Review que "'América es mi país y París es mi ciudad natal', solía decir Stein, y este gran conjunto de sus obras en todos los géneros imaginables (y algunos inimaginables) constituye ciertamente la indemnización de un exilio y la recompensa de un regreso a casa".

En la década de 1980, se abrió un armario de la Biblioteca Beinecke de la Universidad de Yale, que hizo pública por primera vez una colección de papeles de Stein, que incluía 300 notas de amor escritas por Stein y Toklas. La editora Kay Turner recopiló las mejores y las publicó como Baby Precious Always Shines: Notas de amor seleccionadas entre Gertrude Stein y Alice B. Toklas. La mayoría de las notas fueron escritas por Stein para Toklas, a quien llamaba "Baby Precious", quien a su vez llamaba a Stein "Mr. Cuddle-Wuddle". Las notas revelan casi 40 años de declaraciones poéticas de afecto y detalles de su intimidad. Un colaborador de Kirkus Reviews escribió que "la colección hace un caso convincente de la afirmación de Toklas de que 'las notas son una forma muy hermosa de literatura', personal, provocativa y tierna".

Recordada hoy en día sobre todo como una personalidad interesante cuyas obras se leen poco, Gertrude Stein ha dejado sin embargo su sello en la literatura moderna. Como escribió John Ashbery en ARTnews, "Sus estructuras pueden ser demolidas; lo que queda es la sensación de que alguien ha construido". Murió en 1946, y desde entonces su obra ha cobrado mayor importancia.

  Traducción: Rafael Becerra Bernal