28 November 2019

CIELI D'ITALIA - Anacleto Verrecchia


Tipi curiosi e bizzarri s'incontrano nei Cieli d'Italia: Amilcare, così stravagante, che avrebbe dato filo da torcere a dieci psicologi messi insieme. Bastiano, tracagnotto ma agile come una faina che, non avendo nulla da fare, si metteva a contemplare l'Etna, perdendosi in fantasticherie senza fine. Pietro, lungo e diritto come un abete bianco e il suo coraggiosissimo cagnetto Fufi. Giovanni, il Fauno di Ceresole Reale, barbuto eremita del Gran Paradiso che conviveva armoniosamente con la natura e detestava gli uomini e il loro progresso. E ancora nietzscheani e wagneriani a duello in una Bayreuth dove "l'atmosfera è germanica, ma la gazzarra italiana", come scrive Vittorio Mathieu, per concludere con un epicedio di Arthur de Gobineau che proprio di Nietzsche fu il prescursore e di Wagner l’amico più caro, e che in Italia concluse la sua errante esistenza. 

Anacleto Verrecchia (Vallerotonda, 1926 - Torino, 2012) germanista e filosofo, ha vissuto fra Torino e Vienna, dove è stato per anni addetto culturale. Ha scritto numerosi libri tra i quali La catastofe di Nietzsche a Torino (Einaudi 1978), Giordano Bruno la falena dello spirito (Donzelli 2000) e Diario del Gran Paradiso (El Doctor Sax 2020) e ha collaborato con le pagine culturali de La Stampa, Die Presse e Die Welt. Verrecchia odiava la caccia, i politici, i cacalibri e i preti; invece amava molto Schopenhauer, la natura, le montagne, gli alberi monumentali e lo sguardo nobile degli animali. Lavorò sempre al confine tra letteratura e filosofia: la sua prosa filosofica chiara, energica e spesso polemica, è stata giudicata tra le migliori scritte oggi in Italia, insieme a quella di Guido Ceronetti, Manlio Sgalambro e Sossio Giametta.

COPERTINA DI RICCARDO CECCHETTI.

«Sbucato fuori non si sa bene da dove, il Fauno era cresciuto a Ceresole Reale. "Sono un vecchiaccio della montagna", soleva dire. Degli stambecchi che vivevano più in alto, egli aveva non solo la robustezza fisica, ma anche il carattere schivo. E a chi gli rimproverava di non essere più socievole, diceva senza mezzi termini che voleva evitare l'occasione di giudicare il prossimo. "Tutti i nostri mali", aggiungeva, "derivano dal fatto che non siamo capaci di starcene da soli". (...) Per amore dell'indipendenza, non volle mai abbandonare i suoi monti e scendere in pianura, in mezzo a quelli che chiamava"i disgraziati della città". Aveva un'individualità troppo forte per confondersi e amalgamarsi con gli altri». 

Anacleto Verrecchia