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03 May 2023

MEGLIO UN DEMONIO CHE UN CRETINO - Anacleto Verrecchia

 AFORISMI E PENSIERI

A CURA DI 
DARIO STANCA

COPERTINA: 
RICCARDO CECCHETTI




«L’uomo è qualche cosa in più o di sbagliato. Meglio toglierlo di mezzo»: questa l’idea che sta al centro del pensiero di Anacleto Verrecchia. Pensatore onesto, insofferente alle mode culturali, con uno stile lucido e dissacrante, si è impegnato in una proteiforme attività culturale: filosofo, scrittore, biografo e giornalista. Questo volume vuole essere un omaggio alla sua grande figura di intellettuale, attraverso una variegata raccolta di suoi aforismi, battute e pensieri fulminanti, tratti da opere divenute negli anni di difficile reperibilità.  Gli estratti sono stati selezionati da Diario del Gran Paradiso, Sulla filosofia da Università, Rapsodia viennese, Vagabondaggi culturali, La stufa dell’Anticristo e dall’opera postuma Lettere Mercuriali.


ANACLETO VERRECCHIA (Vallerotonda 1926-Torino 2012). Filosofo e germanista dallo stile inconfondibile, fu collaboratore di importanti quotidiani, quali La Stampa, Die Presse, Die Welt. Ha vissuto per lungo tempo a Vienna come addetto culturale presso l’Istituto Italiano di Cultura. Tra i suoi numerosi libri, tradotti anche all’estero, vanno ricordati quelli su Nietzsche, Schopenhauer, Giordano Bruno, Prezzolini e Lichtenberg. El Doctor Sax ha ripubblicato Cieli d’Italia (2019) e Diario del Gran Paradiso (2020), le due opere più intime e con valore letterario della produzione di Verrecchia.


«Tutti gridano al miracolo di Fatima e corrono a inginocchiarsi dinanzi alla Madonna che là, secondo leggenda, sarebbe apparsa ad alcuni pastorelli analfabeti e probabilmente allucinati. Strane, queste Madonne: non compaiono mai a un filosofo o a uno scienziato, ma sempre a pastorelli o a scimuniti».





05 December 2020

Schopenhauerismo e amore per la natura in Diario del Gran Paradiso di Anacleto Verrecchia - di Marco Brignone



Diario del Gran Paradiso, ora ripubblicato da El Doctor Sax, è un libro prezioso, da leggere e da conservare con cura nella propria biblioteca. 

Anacleto Verrecchia, a partire dall’età di ventiquattro anni, trascorse tre anni nel parco del Gran Paradiso, dal giugno 1950 al giugno 1953, e compose questi pensieri di natura prevalentemente aforistica. 

Vorrei qui fare emergere, attraverso le parole dell’autore, il nesso tra il suo schopenhauerismo e l’amore per la natura. 

Inizio con il considerare il tema dello stupore verso la natura. Egli scrive: «La filosofia non nasce forse, come dice Platone, da un sentimento di stupore di fronte ai fenomeni della natura? Ma il mondo è pieno di gente che parla di cose che non sente o che non conosce per esperienza diretta. I filosofi antichi erano così chiari, nelle loro esposizioni, proprio perché si basavano sull’osservazione diretta dei fenomeni» (p. 15). Per Verrecchia solo l’esperienza ha valore conoscitivo: 

«Amo un solo tipo di caccia, quella delle idee. Girovagare su per questi monti, posare lo sguardo ora sullo stambecco, ora sulla roccia, ora sulla pineta ora sul filo d’erba, ora sul ruscello ora sui monti, ora sull’infinitamente grande come il cielo ora sull’estremamente piccolo come l’insetto: tutto questo allena la mente e non di rado riempie il carniere dello spirito. E se l’insetto è più eloquente del libro, io chiudo il libro e osservo l’insetto» (p. 248). 

Per poter cogliere il pulsare dell’esperienza, però, occorre vivere in una condizione di solitudine: «I saggi non raccomandano forse di tenersi il più possibile in disparte dal gran mondo? E poi il silenzio è una condizione indispensabile per pensare e per riflettere. Chi non ama il silenzio non ama neppure la libertà» (p. 12). La montagna a questo riguardo è il luogo perfetto: «La pace e i grandi silenzi, i boschi a perdita d’occhio, i monti giganteschi e l’ampio cielo, verso il quale viene spontaneo di alzare gli occhi, danno ai nostri pensieri un indirizzo diverso. Si esce da se stessi e ci si immerge nei problemi generali, non individuali» (p. 81). 

L’amore per la natura si traduce in Verrecchia non nel piatto binomio natura-civiltà, ma nella meditazione schopenhaueriana sul dolore insito nella vita e nella lotta per l’esistenza, che ovunque si manifesta: 

«Tutto ho visto, la morte e la disperazione, il dolore e la lotta cruenta per la sopravvivenza. E chi dice che anche le piante non soffrano la loro parte? Spoglie e coperte di gelo, ora sembrano anch’esse piegate al dolore universale. No, meglio non guardare troppo a fondo nelle cose. Come il silenzio aiuta la tranquillità dello spirito, così una certa opacità tra noi e il mondo impedisce alla nostra coscienza di fare naufragio» (pp. 96-97). 

Toccante è poi questa riflessione: «Lo sguardo degli erbivori è dolce come la loro indole. Ed è per questo che se la passano male. La dolcezza è un elemento estraneo alla vita e al mondo» (p. 297). Infatti «la vita, comunque la si viva, è un affare che non copre le spese. Per tutti» (p. 83). 

Nel suo schopenhauerismo l’unione di tutti gli esseri ha una radice metafisica: «La nostra conoscenza riguarda il fenomeno, non la cosa in sé. Se uno riuscisse a conoscere se stesso come noumeno o cosa in sé conoscerebbe tutto il mondo, dato che tutti i fenomeni, nel mondo organico come in quello inorganico, traggono dalla stessa radice metafisica. La Volontà, come la chiama Schopenhauer, è unica: cambiano solo i modi e le forme di obiettivazione» (p. 276). Difatti «una è la forza che muove tutte le cose: la cascata che vien giù spumeggiando e la pianta che sale lentamente in alto, gli animali che si muovono sulla terra e gli astri che roteano in cielo. E una è anche la materia che le forma. L’unità nella pluralità» (p. 129). In tale concezione cosmologica organicistica «siamo tutti legati da un’intima parentela, perché tutti deriviamo dallo stesso principio metafisico. Ciò che si riflette negli occhi di un animale è la stessa volontà (intesa in senso metafisico) che si riflette nel mio e nel tuo sguardo. I naturalisti classificano gli animali, ma bisogna fare un passo più in là e riconoscere che gli animali, intimamente, non sono diversi da me e da te» (p. 283). Significativo è poi questo simbolo, quasi un axis mundi

«Le piante possono in qualche modo simboleggiare la teoria del mondo come volontà e rappresentazione, come fenomeno e cosa in sé. Le radici, che non vediamo e quindi non conosciamo, possono simboleggiare la cosa in sé; la chioma, che invece vediamo e conosciamo, può simboleggiare il fenomeno. La morte della chioma non comporta anche quella delle radici, che gettano di nuovo. Ma anche il nostro vero essere, ossia la nostra radice metafisica, non viene distrutto dalla morte» (p. 274-275). 

Il sentimento schopenhaueriano della compassione, inteso come partecipazione al dolore universale, oltre il principium individuationis, si concreta in queste pagine in una acuta attenzione verso gli animali: «Ciò che rende gli animali così gradevoli a vedersi è soprattutto la loro naturalezza. Essi vivono attaccati al filo del presente e hanno per così dire l’innocenza del divenire» (p. 13). Infatti «l’amore per gli animali, dice l’Avesta, è una via che conduce al cielo» (p. 38). La natura è essa stessa una forma di trascendenza: «Se proprio avete bisogno di un Dio, non cercatelo nel cuore dell’uomo, ma piuttosto nel canto degli uccelli, nel silenzio del bosco, negli occhi di un camoscio o nello scrosciare di un fiume» (p. 96). 

Dagli uomini, per contrasto, è meglio tenersi lontani: «I fili spinati e le schegge di vetro sui muri di cinta delle proprietà private la dicono molto lunga sui rapporti umani. E poi si grida libertà, uguaglianza, fratellanza» (p. 238). E ancora: «L’animale non si rifiuta di allattare un figlio non suo, ma a Torino ci si rifiuta di affittare una camera a un siciliano o a un calabrese» (p. 268). Ne sono ben consapevoli gli animali: «La distanza che gli animali tengono rispetto all’uomo è inversamente proporzionale al nostro grado di civiltà» (p. 269). 

In questo passo del 1951 Verrecchia annota in modo inquietante: 

«La terra si va gradatamente inaridendo e riscaldando. Questo dipende dalla scomparsa dei boschi. Le Alpi, un tempo, erano perennemente coperte di neve e di ghiacciai. Ora, durante l’estate, le neve la si vede solo sulle cime delle montagne più alte, mentre il ghiacciaio della Grivola diminuisce di anno in anno. Lo si può anche notare dal colore meno scuro della roccia che il ghiacciaio lascia di mano in mano scoperta. E scompare, naturalmente, anche la flora. Un tempo questa arrivava a un’altezza molto superiore a quella del casotto, come dimostrano i vecchi ceppi di larice o di pino. Ora non più. Il nostro pianeta ha avuto un inizio e avrà anche una fine. Tutto ha un curriculum vitae» (p. 180). 

Già allora, infatti, egli era consapevole dell’impatto negativo dell’uomo sulla natura: 

«Tutto quello che scende in basso, laggiù dove vivono gli uomini, s’insozza. Penso a questi ruscelli così limpidi e puri, che vanno a portare la vita a sua maestà l’uomo. E che cosa ricevono in compenso? Tonnellate e tonnellate di escrementi, di liquami e di altre sozzure. Dal paradiso terrestre alla fogna: è questo il divino corso della storia di cui parla Hegel? Mi chiedo che cosa sarà del nostro pianeta fra cento o duecento anni, quando la popolazione si sarà almeno quadruplicata. L’uomo sarà pure l’animale più nobile, però è sporco e contamina» (p. 180). 

Dure considerazioni riserva poi ai connazionali, definiti «anarchici per carattere e pappataci per vocazione»(p. 268), e «gitanti motorizzati» (p. 293): 

«Gli italiani sono un popolo di sedentari, per non dire di pigraccioni e di mollaccioni. Non camminano e non amano la natura. A una bella camminata nel bosco preferiscono il ristorante, dove s’ingozzano di cibo fino all’inverosimile. Molti di quelli che incontro chiedono per prima cosa dove ci sia un buon ristorante, possibilmente “tipico”. Gli stranieri, invece, chiedono quasi sempre dove conduca questo o quel sentiero, oppure quante ore ci vogliano per attraversare questo o quel colle» (p. 270). 

Egli individua una causa remota di questa incultura negli «gli stupidi dualismi come spirito e materia, uomo e animale, ecc.» (p. 24). D’altronde «chi è pigro nel camminare non ama la natura. Ma il parco bisogna visitarlo a piedi, non in macchina» (pp. 203-294). 

Ci sono però uomini che non hanno perso innocenza e purezza, come l’amico Osello: 

«La musica va sentita, non capita. Non si esprime per concetti. Molte persone, anche se colte, sono completamente insensibili alla musica. Infatti la cultura e l’erudizione non hanno niente a che fare con la sensibilità estetica. Il mio amico Osello non sa che cosa sia un diesis o un bemolle, ma se sente della bella musica si trasfigura. L’ho notato mentre ascoltavamo per radio brani di Wagner. La stessa cosa capita con la poesia. Quante volte gli ho letto brani dell’Odissea, dell’Eneide, della Divina Commedia o del Faust! E lui sempre teso ad ascoltare. Io preferisco di gran lunga la sua sensibilità, così genuina, alle chiacchiere di un erudito» (pp. 276-277). 

Memorabile è poi questo splendido ricordo del filosofo Piero Martinetti: 

«Fu uno dei pochissimi professori universitari (appena dieci su 1500) che rifiutarono di prestare giuramento di fedeltà al fascismo. Gli amici lo abbandonarono subito, perché temevano di compromettersi. Accade sempre così in simili circostanze. Già Ovidio dice che come le formiche abbandonano i granai vuoti, così gli amici abbandonano chi cade in disgrazia. Ma Piero Martinetti, bastando a se stesso, non sentiva assolutamente la mancanza di amici, veri o falsi che fossero. L’innocenza degli animali, che egli amava moltissimo (non per niente era uno schopenhauriano e s’interessava di filosofia indiana), non gli faceva rimpiangere l’amicizia infida degli uomini. Lontano dai rumori del mondo, dove di regola regna la malvagità e comanda la pazzia, trascorreva il suo tempo nello studio e nella meditazione» (p. 265-266). 

Occorre cercare la solitudine e il silenzio di questi alti spazi: «Nulla contribuisce alla tranquillità dell’anima come lo star seduti vicino a un ruscello e ascoltarne il rumore. È come se l’acqua che serpeggia tra i sassi si portasse via i nostri affanni» (p. 262). Così come la compagnia degli animali, lo stambecco, la marmotta, l’aquila, il merlo e il corvo: «Che cosa vuole comunicarmi il gracchio che mi guarda così attentamente? Ha un’aria assorta e sembra che rifletta anche lui sul proprio destino» (p. 274). 

In questo dicembre, lontano dal Nivolet e dai luoghi incontaminati del parco, istituito novantotto anni or sono, mi è di consolazione leggere le parole di Anacoreta Verrecchia: 

«Rimanere isolati dalla neve, senza la possibilità di ricevere o di trasmettere notizie al mondo, è un’esperienza incredibilmente piacevole e unica nel suo genere. Si è a contatto solo con gli elementi della natura e si prova un’ebrezza panica. Ci si sente, per così dire, reintegrati nella natura. È una specie di apocatastasi. I rumori del mondo e la commedia della vita sono lontani, e questo dà pace allo spirito» (p. 290). 



Marco Brignone 
5 dicembre 2020


 

 

 

 

 

07 July 2020

DIARIO DEL GRAN PARADISO - Anacleto Verrecchia


COPERTINA DI 
MARCO DE LUCA

«Dividere il cielo con gli stambecchi, ma anche con i camosci e le marmotte, è un’esperienza molto gradevole e unica nel suo genere: l’anima si allarga, lo spirito si arricchisce e l’innocenza degli animali fa dimenticare la malvagità degli umani». 


È questa la fondamentale esperienza fatta da Anacleto Verrecchia in gioventù, quando per tre anni visse, lavorò e meditò nel Parco del Gran Paradiso. Esperienza non d’isolamento, ma, piuttosto, di diradamento del commercio coi propri simili. Cosa cercava lassù? Certo, conforto da un tormentoso dolore, come l’essere stato testimone diretto, da bambino, degli orrori della Battaglia di Montecassino. Ma trovò anche altro: un punto nuovo d’osservazione degli uomini, la possibilità d’accedere ad un diverso grado di conoscenza. Di quel periodo è rimasto questo libro: un diario, uno zibaldone di riflessioni. Da luogo reale il Parco diventò per lui anche un luogo mentale, un rifugio, una costante del suo modo di giudicare e soprattutto del suo modo di essere.

Anacleto Verrecchia (Vallerotonda, 1926 - Torino, 2012) germanista e filosofo, ha vissuto fra Torino e Vienna, dove è stato per anni addetto culturale. Ha scritto numerosi libri tra i quali La catastofe di Nietzsche a Torino (Einaudi 1978), Giordano Bruno la falena dello spirito (Donzelli 2000) e Cieli d’Italia (El Doctor Sax 2019) e ha collaborato con le pagine culturali de La StampaDie Presse Die Welt. Verrecchia odiava la caccia, i politici, i cacalibri e i preti; invece amava molto Schopenhauer, la natura, le montagne, gli alberi monumentali e lo sguardo nobile degli animali. Lavorò sempre al confine tra letteratura e filosofia: la sua prosa filosofica chiara, energica e spesso polemica, è stata giudicata tra le migliori scritte oggi in Italia.

 «"Diario del Gran Paradiso" è senza alcun dubbio il libro più bello di Anacleto Verrecchia».
Sossio Giametta

 «Intanto Cognetti, per non perdere il lettore tra cazzuola e materiali idraulici, infila senza citarle perle di saggezza di Thoreau, Twain e soprattutto di Anacleto Verrecchia, autore di quel “Diario dal Gran Paradiso” che avremo letto in cento (tra cui Cognetti) perché è un capolavoro immenso scritto dal giornalista culturale de “La Stampa” e tra i massimi studiosi europei della vita di Nietzsche»
Gian Paolo Serino

 «Ho girato il mondo e fatto mille esperienze, sempre fedele alla mia idea che l’uomo, se non vuole arrugginire, deve di tanto in tanto cambiare lavoro e rinnovarsi. Così ho frequentato industriali e quattrinai, scrittori e professori, diplomatici e gente di mondo. Ma giuro, e prego il lettore di credermi, che non ho mai incontrato una creatura più nobile, più fiera e soprattutto più onesta dello stambecco, che vive in alto e disdegna le bassure. A lui dedico queste pagine della mia giovinezza».
Anacleto Verrecchia




01 January 2020

18 December 2019