06 December 2020
05 December 2020
Schopenhauerismo e amore per la natura in Diario del Gran Paradiso di Anacleto Verrecchia - di Marco Brignone
Diario del Gran Paradiso, ora ripubblicato da El Doctor Sax, è un libro prezioso, da leggere e da conservare con cura nella propria biblioteca.
Anacleto Verrecchia, a partire dall’età di ventiquattro anni, trascorse tre anni nel parco del Gran Paradiso, dal giugno 1950 al giugno 1953, e compose questi pensieri di natura prevalentemente aforistica.
Vorrei qui fare emergere, attraverso le parole dell’autore, il nesso tra il suo schopenhauerismo e l’amore per la natura.
Inizio con il considerare il tema dello stupore verso la natura. Egli scrive: «La filosofia non nasce forse, come dice Platone, da un sentimento di stupore di fronte ai fenomeni della natura? Ma il mondo è pieno di gente che parla di cose che non sente o che non conosce per esperienza diretta. I filosofi antichi erano così chiari, nelle loro esposizioni, proprio perché si basavano sull’osservazione diretta dei fenomeni» (p. 15). Per Verrecchia solo l’esperienza ha valore conoscitivo:
«Amo un solo tipo di caccia, quella delle idee. Girovagare su per questi monti, posare lo sguardo ora sullo stambecco, ora sulla roccia, ora sulla pineta ora sul filo d’erba, ora sul ruscello ora sui monti, ora sull’infinitamente grande come il cielo ora sull’estremamente piccolo come l’insetto: tutto questo allena la mente e non di rado riempie il carniere dello spirito. E se l’insetto è più eloquente del libro, io chiudo il libro e osservo l’insetto» (p. 248).
Per poter cogliere il pulsare dell’esperienza, però, occorre vivere in una condizione di solitudine: «I saggi non raccomandano forse di tenersi il più possibile in disparte dal gran mondo? E poi il silenzio è una condizione indispensabile per pensare e per riflettere. Chi non ama il silenzio non ama neppure la libertà» (p. 12). La montagna a questo riguardo è il luogo perfetto: «La pace e i grandi silenzi, i boschi a perdita d’occhio, i monti giganteschi e l’ampio cielo, verso il quale viene spontaneo di alzare gli occhi, danno ai nostri pensieri un indirizzo diverso. Si esce da se stessi e ci si immerge nei problemi generali, non individuali» (p. 81).
L’amore per la natura si traduce in Verrecchia non nel piatto binomio natura-civiltà, ma nella meditazione schopenhaueriana sul dolore insito nella vita e nella lotta per l’esistenza, che ovunque si manifesta:
«Tutto ho visto, la morte e la disperazione, il dolore e la lotta cruenta per la sopravvivenza. E chi dice che anche le piante non soffrano la loro parte? Spoglie e coperte di gelo, ora sembrano anch’esse piegate al dolore universale. No, meglio non guardare troppo a fondo nelle cose. Come il silenzio aiuta la tranquillità dello spirito, così una certa opacità tra noi e il mondo impedisce alla nostra coscienza di fare naufragio» (pp. 96-97).
Toccante è poi questa riflessione: «Lo sguardo degli erbivori è dolce come la loro indole. Ed è per questo che se la passano male. La dolcezza è un elemento estraneo alla vita e al mondo» (p. 297). Infatti «la vita, comunque la si viva, è un affare che non copre le spese. Per tutti» (p. 83).
Nel suo schopenhauerismo l’unione di tutti gli esseri ha una radice metafisica: «La nostra conoscenza riguarda il fenomeno, non la cosa in sé. Se uno riuscisse a conoscere se stesso come noumeno o cosa in sé conoscerebbe tutto il mondo, dato che tutti i fenomeni, nel mondo organico come in quello inorganico, traggono dalla stessa radice metafisica. La Volontà, come la chiama Schopenhauer, è unica: cambiano solo i modi e le forme di obiettivazione» (p. 276). Difatti «una è la forza che muove tutte le cose: la cascata che vien giù spumeggiando e la pianta che sale lentamente in alto, gli animali che si muovono sulla terra e gli astri che roteano in cielo. E una è anche la materia che le forma. L’unità nella pluralità» (p. 129). In tale concezione cosmologica organicistica «siamo tutti legati da un’intima parentela, perché tutti deriviamo dallo stesso principio metafisico. Ciò che si riflette negli occhi di un animale è la stessa volontà (intesa in senso metafisico) che si riflette nel mio e nel tuo sguardo. I naturalisti classificano gli animali, ma bisogna fare un passo più in là e riconoscere che gli animali, intimamente, non sono diversi da me e da te» (p. 283). Significativo è poi questo simbolo, quasi un axis mundi:
«Le piante possono in qualche modo simboleggiare la teoria del mondo come volontà e rappresentazione, come fenomeno e cosa in sé. Le radici, che non vediamo e quindi non conosciamo, possono simboleggiare la cosa in sé; la chioma, che invece vediamo e conosciamo, può simboleggiare il fenomeno. La morte della chioma non comporta anche quella delle radici, che gettano di nuovo. Ma anche il nostro vero essere, ossia la nostra radice metafisica, non viene distrutto dalla morte» (p. 274-275).
Il sentimento schopenhaueriano della compassione, inteso come partecipazione al dolore universale, oltre il principium individuationis, si concreta in queste pagine in una acuta attenzione verso gli animali: «Ciò che rende gli animali così gradevoli a vedersi è soprattutto la loro naturalezza. Essi vivono attaccati al filo del presente e hanno per così dire l’innocenza del divenire» (p. 13). Infatti «l’amore per gli animali, dice l’Avesta, è una via che conduce al cielo» (p. 38). La natura è essa stessa una forma di trascendenza: «Se proprio avete bisogno di un Dio, non cercatelo nel cuore dell’uomo, ma piuttosto nel canto degli uccelli, nel silenzio del bosco, negli occhi di un camoscio o nello scrosciare di un fiume» (p. 96).
Dagli uomini, per contrasto, è meglio tenersi lontani: «I fili spinati e le schegge di vetro sui muri di cinta delle proprietà private la dicono molto lunga sui rapporti umani. E poi si grida libertà, uguaglianza, fratellanza» (p. 238). E ancora: «L’animale non si rifiuta di allattare un figlio non suo, ma a Torino ci si rifiuta di affittare una camera a un siciliano o a un calabrese» (p. 268). Ne sono ben consapevoli gli animali: «La distanza che gli animali tengono rispetto all’uomo è inversamente proporzionale al nostro grado di civiltà» (p. 269).
In questo passo del 1951 Verrecchia annota in modo inquietante:
«La terra si va gradatamente inaridendo e riscaldando. Questo dipende dalla scomparsa dei boschi. Le Alpi, un tempo, erano perennemente coperte di neve e di ghiacciai. Ora, durante l’estate, le neve la si vede solo sulle cime delle montagne più alte, mentre il ghiacciaio della Grivola diminuisce di anno in anno. Lo si può anche notare dal colore meno scuro della roccia che il ghiacciaio lascia di mano in mano scoperta. E scompare, naturalmente, anche la flora. Un tempo questa arrivava a un’altezza molto superiore a quella del casotto, come dimostrano i vecchi ceppi di larice o di pino. Ora non più. Il nostro pianeta ha avuto un inizio e avrà anche una fine. Tutto ha un curriculum vitae» (p. 180).
Già allora, infatti, egli era consapevole dell’impatto negativo dell’uomo sulla natura:
«Tutto quello che scende in basso, laggiù dove vivono gli uomini, s’insozza. Penso a questi ruscelli così limpidi e puri, che vanno a portare la vita a sua maestà l’uomo. E che cosa ricevono in compenso? Tonnellate e tonnellate di escrementi, di liquami e di altre sozzure. Dal paradiso terrestre alla fogna: è questo il divino corso della storia di cui parla Hegel? Mi chiedo che cosa sarà del nostro pianeta fra cento o duecento anni, quando la popolazione si sarà almeno quadruplicata. L’uomo sarà pure l’animale più nobile, però è sporco e contamina» (p. 180).
Dure considerazioni riserva poi ai connazionali, definiti «anarchici per carattere e pappataci per vocazione»(p. 268), e «gitanti motorizzati» (p. 293):
«Gli italiani sono un popolo di sedentari, per non dire di pigraccioni e di mollaccioni. Non camminano e non amano la natura. A una bella camminata nel bosco preferiscono il ristorante, dove s’ingozzano di cibo fino all’inverosimile. Molti di quelli che incontro chiedono per prima cosa dove ci sia un buon ristorante, possibilmente “tipico”. Gli stranieri, invece, chiedono quasi sempre dove conduca questo o quel sentiero, oppure quante ore ci vogliano per attraversare questo o quel colle» (p. 270).
Egli individua una causa remota di questa incultura negli «gli stupidi dualismi come spirito e materia, uomo e animale, ecc.» (p. 24). D’altronde «chi è pigro nel camminare non ama la natura. Ma il parco bisogna visitarlo a piedi, non in macchina» (pp. 203-294).
Ci sono però uomini che non hanno perso innocenza e purezza, come l’amico Osello:
«La musica va sentita, non capita. Non si esprime per concetti. Molte persone, anche se colte, sono completamente insensibili alla musica. Infatti la cultura e l’erudizione non hanno niente a che fare con la sensibilità estetica. Il mio amico Osello non sa che cosa sia un diesis o un bemolle, ma se sente della bella musica si trasfigura. L’ho notato mentre ascoltavamo per radio brani di Wagner. La stessa cosa capita con la poesia. Quante volte gli ho letto brani dell’Odissea, dell’Eneide, della Divina Commedia o del Faust! E lui sempre teso ad ascoltare. Io preferisco di gran lunga la sua sensibilità, così genuina, alle chiacchiere di un erudito» (pp. 276-277).
Memorabile è poi questo splendido ricordo del filosofo Piero Martinetti:
«Fu uno dei pochissimi professori universitari (appena dieci su 1500) che rifiutarono di prestare giuramento di fedeltà al fascismo. Gli amici lo abbandonarono subito, perché temevano di compromettersi. Accade sempre così in simili circostanze. Già Ovidio dice che come le formiche abbandonano i granai vuoti, così gli amici abbandonano chi cade in disgrazia. Ma Piero Martinetti, bastando a se stesso, non sentiva assolutamente la mancanza di amici, veri o falsi che fossero. L’innocenza degli animali, che egli amava moltissimo (non per niente era uno schopenhauriano e s’interessava di filosofia indiana), non gli faceva rimpiangere l’amicizia infida degli uomini. Lontano dai rumori del mondo, dove di regola regna la malvagità e comanda la pazzia, trascorreva il suo tempo nello studio e nella meditazione» (p. 265-266).
Occorre cercare la solitudine e il silenzio di questi alti spazi: «Nulla contribuisce alla tranquillità dell’anima come lo star seduti vicino a un ruscello e ascoltarne il rumore. È come se l’acqua che serpeggia tra i sassi si portasse via i nostri affanni» (p. 262). Così come la compagnia degli animali, lo stambecco, la marmotta, l’aquila, il merlo e il corvo: «Che cosa vuole comunicarmi il gracchio che mi guarda così attentamente? Ha un’aria assorta e sembra che rifletta anche lui sul proprio destino» (p. 274).
In questo dicembre, lontano dal Nivolet e dai luoghi incontaminati del parco, istituito novantotto anni or sono, mi è di consolazione leggere le parole di Anacoreta Verrecchia:
«Rimanere isolati dalla neve, senza la possibilità di ricevere o di trasmettere notizie al mondo, è un’esperienza incredibilmente piacevole e unica nel suo genere. Si è a contatto solo con gli elementi della natura e si prova un’ebrezza panica. Ci si sente, per così dire, reintegrati nella natura. È una specie di apocatastasi. I rumori del mondo e la commedia della vita sono lontani, e questo dà pace allo spirito» (p. 290).
Marco Brignone
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Recensione di Sangue e Latte - di Lavinia Stornaiuolo
“A furia di adattarmi mi ero snaturato”
Il punto esatto della presa di coscienza. Quello che arriva sempre nella vita, in un dato momento, forse il momento di maggiore improbabilità dell’esistenza. È lì che inizia il discorso.
Sangue e latte è una narrazione che si vuole sospesa, che si vuole doppia: profondamente radicata nel passato, nelle tradizioni, nel tempo ancestrale della superiorità dei ruoli e dei legami sociali, dei ritmi della terra e dei suoi profumi. È una narrazione che si vuole divisa, fra l’amore e il disagio, fra il sé sociale e il sé individuale.
Attraverso un movimento binario del racconto si tracciano molteplici dimensioni, mentre le stesse sortiscono i propri effetti in un gioco di cerchi concentrici in cui ogni riflessione, evento, ricordo, parola, inevitabilmente si inglobano vicendevolmente, costruendo le strade del protagonista, e tracciandone le vie interiori, sempre più intricate.
“Le cose dovevano essere perfette”
È qui che nasce la scissione interiore, nel cercare di definire la perfezione, di farne una misura del proprio mondo, quando invece la perfezione si rivela costantemente non esser tale, in tutte le sue forme. È la parola che svela, la parola che si offre come elemento sanatore. Ma è la stessa parola che svolge un duplice ruolo nella narrazione personale: affonda le radici nel tentativo inconscio di distruggerle, e nell’affondarle trova la forza per spingere oltre, verso una liberazione che ricombina gli aspetti dell’esistenza. La parola consente di non abbandonare il passato, ma al contempo esprime la profonda forza di fissare il passato, farne dipinto nella memoria, per poter riplasmare il presente, che è già futuro.
Sangue e latte è un manifesto della parola, nella misura in cui la stessa offre rinascita, oblio, ritorni. La parola come identità, capace di proiettare dentro per poi scaraventare fuori. Il discorso in cui ognuno può trovare le combinazioni attraverso le quali attribuire i sensi.
“Cominciare a interrogarsi su ciò che si vuole (...) Intensamente”
14 November 2020
13 November 2020
OMBRA MAI FU - Luca Moccafighe
Le ombre ci seguono, mute e silenziose, non chiedono nulla se non accompagnarci nel nostro cammino, ci accorgiamo di loro soltanto quando esse sono assenti, proprio come accade con tutte le cose buone della vita. Una vicenda grottesca con contorni drammatici, dove due fratelli si ritrovano a disputarsi un'ombra, in un tempo lontano nel quale i personaggi che si avvicendano compiono azioni e pronunciano concetti tutt'altro che superati anche ai giorni nostri, in un mondo che si evolve mutando soltanto di abito.
Luca Moccafighe, nato nel 1969 a Torino, ha pubblicato saggi su Jeff Buckley, Dario Fo, Nick Cave, ha tradotto Jack London, Georg Buchner e Aleister Crowley. Nel 2018, il suo ritratto romanzato di Benjamin Fondane è stato selezionato come libro del giorno dalla redazione di Qui Comincia, Rai Radio3. Ombra mai fu è la sua prima prova di narrativa pura.
«Veramente noi non sappiamo se la nostra malattia sia fisica o portata da chissà quale diavoleria… ecco in realtà riguarda la nostra ombra…»
«Che cosa?» rispose il medico guardandoli come se avessero pronunciato chissà quale stramberia.
«Sì, ecco» fu la risposta «noi due non abbiamo un’ombra per uno come tutte le persone, ne abbiamo una in due, questa sta esattamente a metà fra di noi e non siamo in grado di capire di chi sia, se sia mia o sua…»
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