02 February 2021
01 February 2021
06 January 2021
20 December 2020
Ombra mai fu di Luca Moccafighe - recensione di Luca Buoncristiano
Perché consigliare questo libro, perché nelle sue parole perfette, nella sua stesura impeccabile, c'è tutta la risposta ad una letteratura che non contempla più, o quasi, temi e modalità assolute.
Qui c'è la sfida del tempo, perché pare di leggere un volume a cavallo tra i Secoli scorsi, una parabola o una favola al nero, così lontana da questo presente così poco seducente, eppure così vicina nel cuore di chi li la legge.
Perché scrivere è anche un modo di essere e tentare un approccio critico al presente. L'uso della lingua che qui viene fatto, di certi arcaicismi, del grotesque, altro non sono che una critica alla contemporaneità e la storia che vi viene narrata è essa stessa una parabola di vita senza tempo ma sempre attuale. Dategli un'occasione, se non altro per provare qualcosa di così anticamente nuovo.
Luca Buoncristiano
18 December 2020
Sangue e latte di Eugenio di Donato su Artemisrory_bookclub - di Federica Piras
E così è stato: forte e genuino come il libro di cui ora voglio parlarvi.Ci troviamo in un castello di regole e rigida consuetudine; in aperta campagna, dove il tempo è scandito dai ritmi della semina, del raccolto e delle stagioni, sullo sfondo di una comunità riottosa al nuovo e di una famiglia vecchio stampo. Ma quel tempo è già trascorso, pur sopravvivendo nel presente.
Perché il nostro vissuto ci condiziona sempre, addossandoci il ruolo acclamato e richiesto dalla società. Perché non siamo null'altro che questo: un insieme sconnesso e vacillante di tradizione, abitudini e costumi ereditari. È incredibilmente difficile trovare la propria strada, avventurarsi al di fuori del caldo nido innervato dalla dea Educazione. È puro dolore recidere il legame con le origini, sofferta la lotta per sradicare la memoria, come far deragliare un treno lanciato in corsa lungo una traiettoria già segnata.
In poco più di un centinaio di pagine è condensata tutta l'essenza della fragilità umana, marchingegno difettoso e deciso a fermarsi.
Questa è la storia di Ludovico Travagli, che già nel nome porta i segni della sfida che si chiama vita.
"Latte e sangue", così si dice in Abruzzo per invitare chi si incontra a diventare uomo, a crescere ed evolvere. Ed è proprio questo il fulcro, l'Essenziale.
Non basta esistere per essere. Bisogna anche afferrare, stringere ciò che di buono la vita ha da offrirci.
Rinnegare il passato, questo no, mai: accettarne le implicazioni, perdonare se stessi sempre.
Aprirsi al dialogo, dismettere il giudizio: parlare e finalmente strapparci al vincolo alienante di castrazioni, a cui noi stessi, spesso, ci condanniamo.
Eugenio di Donato ha uno stile che ho amato moltissimo: direi "ermetico" e al contempo estremamente schietto, nudo, graffiante nella sua semplicità. Le parole sono come i tagli su tela di Fontana: ferite aperte, da cui trapela la luce. È stata una delle letture più belle di quest'anno, ha lasciato il segno.
Perché il nostro vissuto ci condiziona sempre, addossandoci il ruolo acclamato e richiesto dalla società. Perché non siamo null'altro che questo: un insieme sconnesso e vacillante di tradizione, abitudini e costumi ereditari. È incredibilmente difficile trovare la propria strada, avventurarsi al di fuori del caldo nido innervato dalla dea Educazione. È puro dolore recidere il legame con le origini, sofferta la lotta per sradicare la memoria, come far deragliare un treno lanciato in corsa lungo una traiettoria già segnata.
In poco più di un centinaio di pagine è condensata tutta l'essenza della fragilità umana, marchingegno difettoso e deciso a fermarsi.
Questa è la storia di Ludovico Travagli, che già nel nome porta i segni della sfida che si chiama vita.
"Latte e sangue", così si dice in Abruzzo per invitare chi si incontra a diventare uomo, a crescere ed evolvere. Ed è proprio questo il fulcro, l'Essenziale.
Non basta esistere per essere. Bisogna anche afferrare, stringere ciò che di buono la vita ha da offrirci.
Rinnegare il passato, questo no, mai: accettarne le implicazioni, perdonare se stessi sempre.
Aprirsi al dialogo, dismettere il giudizio: parlare e finalmente strapparci al vincolo alienante di castrazioni, a cui noi stessi, spesso, ci condanniamo.
Eugenio di Donato ha uno stile che ho amato moltissimo: direi "ermetico" e al contempo estremamente schietto, nudo, graffiante nella sua semplicità. Le parole sono come i tagli su tela di Fontana: ferite aperte, da cui trapela la luce. È stata una delle letture più belle di quest'anno, ha lasciato il segno.
16 December 2020
Fantiana - Scritti su John Fante selezionati da Eduardo Margaretto
COPERTINA:
MARCO DE LUCA
TRADUZIONE:
SILVIA PANTÒ &
FRANCESCO MELCHIOTTI
14 December 2020
RACCONTI DI SOLITUDINE - Jack London
TRADUZIONE:
SILVIA PANTÒ &
GABRIELE NERO
In queste volume sono stati selezionati tre racconti che fanno parte della raccolta dedicata ai viaggi nel Grande Nord: Amore alla vita, Bâtard e Il Silenzio Bianco. Le tre storie, seppur molto diverse, sono incentrate sulla contrapposizione dialettica tra individualità e collettività, elemento spesso presente nelle sue opere. London sosteneva che l’essere umano non fosse buono per indole, e che solo nella solitudine estrema e primitiva potesse cogliere la propria essenza animale, riconciliandosi e prendendo coscienza di essere un elemento in più del grande quadro della Natura. I protagonisti di questi racconti, persi in situazioni estreme, riscoprono il loro amore verso la vita, proprio percorrendo l’ultimo sentiero. Quello che li condurrà verso il Silenzio Bianco.
«Preferirei essere cenere che polvere! Preferirei che la mia fiamma bruciasse in una vampa brillante piuttosto che venire ricoperto dalla muffa. Preferirei essere un magnifico meteorite, con atomi che bruciano e si infiammano, piuttosto che un pianeta immobile e assopito. La natura dell'uomo è vivere, non esistere. Non ho intenzione di sprecare i miei giorni nel tentativo di prolungarli, voglio viverli»
JACK LONDON
13 December 2020
LIBRO ROTTO di Luca Buoncristiano su ELEONORASIRA - di Eleonora Siracusa (Instagram)
L’autore non stringe col lettore un semplice patto di sospensione d’incredulità, ne fa il campo stesso della battaglia; se si accettano le regole del gioco, si potrà essere introdotti in universo parallelo: scarpe donate da Dalì, la rockstar satanista con un occhio suo e uno di husky, la vera storia dell’invenzione di Hello Kitty, il quadro-vagina che il soldato dell’Armata Rossa rubò al gerarca nazista che a sua volta l’aveva sottratto al barone ebreo ungherese, l’unità del KGB degli zombie militari addestrati in funzione antioccidentale, il pignoramento del luna park a Michael Jackson.
“Gli ultimi saranno sempre gli ultimi. L’importante non è giocare, ma non giocare affatto”.
Ma ormai è tardi, la partita si è svolta, il viaggio è finito.
“Gli ultimi saranno sempre gli ultimi. L’importante non è giocare, ma non giocare affatto”.
Ma ormai è tardi, la partita si è svolta, il viaggio è finito.
Eleonora Siracusa
11 December 2020
RACCONTANDO: L'editoria a portata di scuola - a cura di Cristina Vitagliano e delle classi 3H e 3B della S. S. Giovanni XXIII di Pianezza (To)
Raccontando: l’editoria a portata di scuola è un progetto didattico-editoriale che ci ha permesso, in un percorso lungo due anni, di dare vita a questo libro e di toccare con mano il settore dell’editoria: un mondo che spazia dalla scrittura alla pubblicazione, dallo scrittore all’editore.
Abbiamo vissuto personalmente i retroscena, le tappe fondamentali e tutto ciò che gravita attorno a questo mondo grazie all’interazione con l’editore Gabriele Nero e la scrittrice Cristina Vitagliano. Abbiamo trattato la composizione di un racconto e la distinzione tra quattro generi letterari (giallo, horror, avventura e fantasy). Dopo aver letto alcuni testi ed esaminato le loro caratteristiche, ci siamo esercitati nella scrittura creativa e abbiamo scritto questi racconti prendendo spunto da alcuni oggetti perduti. La parte più impegnativa, ma anche più bella, è stata quella di scrivere noi stessi un racconto. È stata data la possibilità ad ognuno di noi di poter scegliere uno tra questi generi letterari e dare spazio alla nostra creatività, componendo dei racconti brevi, sedici dei quali compongono questa antologia. Abbiamo poi lavorato all’impaginazione, alla ricerca del titolo e alla creazione della copertina di questo libro, che rappresenta il frutto di due anni trascorsi tra le pagine dei libri e della fantasia.
Questo testo è stato composto attraverso le parole dei giovani scrittori/studenti delle classi 3H e 3B della Scuola Secondaria Giovanni XXIII di Pianezza, che hanno partecipato a Raccontando durante il biennio scolastico 2019/2020 – 2020/2021. Il progetto, promosso dal Comune di Pianezza (TO), è stato creato e coordinato da Gabriele Nero e Cristina Vitagliano, con il supporto dei docenti Federica Crescenzi e Antonio Vona.
Recensione di Ombra mai fu di Luca Moccafighe - di Eugenio Di Donato
Ombra mai fu è una storia scritta in un italiano sorprendente, periodi lunghissimi si snodano lievi per pagine e pagine come se il flauto del fauno in copertina ne modulasse l’incanto. Racconta di due fratelli piuttosto brutti e quasi deformi che si dividono e contendono una sola ombra.
È la storia di un «difetto» impalpabile quasi a suggerire che in quanto tale non sia un vero difetto – «si parla del niente» – che simboleggia tutti i «diffetti», escrescenze impreviste e bizzarre che rompono la paciosa e rassicurante uniformità del conosciuto.
Ombra mai fu racconta del desiderio necessità di assomigliare a tutti i costi a ciò che esiste già, del bisogno impellente di «essere uguali», pena la morte, l’isolamento e la derisione continua da parte dell’altro. Della comunità che dovrebbe proteggere e che invece, simmetrica e omologata, dà prima del diverso, poi del matto e del demoniaco, e in fine addita come fuori posto. Una comunità inghiottita dalla stupidità, che incapace di riconoscere e riconoscersi trasforma l’inatteso in vittima e persino in carnefice di sé stesso, e nell’orgia dell’idiozia tutti insieme vittime e carnefici aizzano il mito della purezza e lo perseguono, e come ogni tentativo di estirpazione e rimozione di ciò che non è uguale a sé stesso, persino di ciò che non si può toccare, conduce al peggior scempio.
Eugenio Di Donato
08 December 2020
06 December 2020
05 December 2020
Schopenhauerismo e amore per la natura in Diario del Gran Paradiso di Anacleto Verrecchia - di Marco Brignone
Diario del Gran Paradiso, ora ripubblicato da El Doctor Sax, è un libro prezioso, da leggere e da conservare con cura nella propria biblioteca.
Anacleto Verrecchia, a partire dall’età di ventiquattro anni, trascorse tre anni nel parco del Gran Paradiso, dal giugno 1950 al giugno 1953, e compose questi pensieri di natura prevalentemente aforistica.
Vorrei qui fare emergere, attraverso le parole dell’autore, il nesso tra il suo schopenhauerismo e l’amore per la natura.
Inizio con il considerare il tema dello stupore verso la natura. Egli scrive: «La filosofia non nasce forse, come dice Platone, da un sentimento di stupore di fronte ai fenomeni della natura? Ma il mondo è pieno di gente che parla di cose che non sente o che non conosce per esperienza diretta. I filosofi antichi erano così chiari, nelle loro esposizioni, proprio perché si basavano sull’osservazione diretta dei fenomeni» (p. 15). Per Verrecchia solo l’esperienza ha valore conoscitivo:
«Amo un solo tipo di caccia, quella delle idee. Girovagare su per questi monti, posare lo sguardo ora sullo stambecco, ora sulla roccia, ora sulla pineta ora sul filo d’erba, ora sul ruscello ora sui monti, ora sull’infinitamente grande come il cielo ora sull’estremamente piccolo come l’insetto: tutto questo allena la mente e non di rado riempie il carniere dello spirito. E se l’insetto è più eloquente del libro, io chiudo il libro e osservo l’insetto» (p. 248).
Per poter cogliere il pulsare dell’esperienza, però, occorre vivere in una condizione di solitudine: «I saggi non raccomandano forse di tenersi il più possibile in disparte dal gran mondo? E poi il silenzio è una condizione indispensabile per pensare e per riflettere. Chi non ama il silenzio non ama neppure la libertà» (p. 12). La montagna a questo riguardo è il luogo perfetto: «La pace e i grandi silenzi, i boschi a perdita d’occhio, i monti giganteschi e l’ampio cielo, verso il quale viene spontaneo di alzare gli occhi, danno ai nostri pensieri un indirizzo diverso. Si esce da se stessi e ci si immerge nei problemi generali, non individuali» (p. 81).
L’amore per la natura si traduce in Verrecchia non nel piatto binomio natura-civiltà, ma nella meditazione schopenhaueriana sul dolore insito nella vita e nella lotta per l’esistenza, che ovunque si manifesta:
«Tutto ho visto, la morte e la disperazione, il dolore e la lotta cruenta per la sopravvivenza. E chi dice che anche le piante non soffrano la loro parte? Spoglie e coperte di gelo, ora sembrano anch’esse piegate al dolore universale. No, meglio non guardare troppo a fondo nelle cose. Come il silenzio aiuta la tranquillità dello spirito, così una certa opacità tra noi e il mondo impedisce alla nostra coscienza di fare naufragio» (pp. 96-97).
Toccante è poi questa riflessione: «Lo sguardo degli erbivori è dolce come la loro indole. Ed è per questo che se la passano male. La dolcezza è un elemento estraneo alla vita e al mondo» (p. 297). Infatti «la vita, comunque la si viva, è un affare che non copre le spese. Per tutti» (p. 83).
Nel suo schopenhauerismo l’unione di tutti gli esseri ha una radice metafisica: «La nostra conoscenza riguarda il fenomeno, non la cosa in sé. Se uno riuscisse a conoscere se stesso come noumeno o cosa in sé conoscerebbe tutto il mondo, dato che tutti i fenomeni, nel mondo organico come in quello inorganico, traggono dalla stessa radice metafisica. La Volontà, come la chiama Schopenhauer, è unica: cambiano solo i modi e le forme di obiettivazione» (p. 276). Difatti «una è la forza che muove tutte le cose: la cascata che vien giù spumeggiando e la pianta che sale lentamente in alto, gli animali che si muovono sulla terra e gli astri che roteano in cielo. E una è anche la materia che le forma. L’unità nella pluralità» (p. 129). In tale concezione cosmologica organicistica «siamo tutti legati da un’intima parentela, perché tutti deriviamo dallo stesso principio metafisico. Ciò che si riflette negli occhi di un animale è la stessa volontà (intesa in senso metafisico) che si riflette nel mio e nel tuo sguardo. I naturalisti classificano gli animali, ma bisogna fare un passo più in là e riconoscere che gli animali, intimamente, non sono diversi da me e da te» (p. 283). Significativo è poi questo simbolo, quasi un axis mundi:
«Le piante possono in qualche modo simboleggiare la teoria del mondo come volontà e rappresentazione, come fenomeno e cosa in sé. Le radici, che non vediamo e quindi non conosciamo, possono simboleggiare la cosa in sé; la chioma, che invece vediamo e conosciamo, può simboleggiare il fenomeno. La morte della chioma non comporta anche quella delle radici, che gettano di nuovo. Ma anche il nostro vero essere, ossia la nostra radice metafisica, non viene distrutto dalla morte» (p. 274-275).
Il sentimento schopenhaueriano della compassione, inteso come partecipazione al dolore universale, oltre il principium individuationis, si concreta in queste pagine in una acuta attenzione verso gli animali: «Ciò che rende gli animali così gradevoli a vedersi è soprattutto la loro naturalezza. Essi vivono attaccati al filo del presente e hanno per così dire l’innocenza del divenire» (p. 13). Infatti «l’amore per gli animali, dice l’Avesta, è una via che conduce al cielo» (p. 38). La natura è essa stessa una forma di trascendenza: «Se proprio avete bisogno di un Dio, non cercatelo nel cuore dell’uomo, ma piuttosto nel canto degli uccelli, nel silenzio del bosco, negli occhi di un camoscio o nello scrosciare di un fiume» (p. 96).
Dagli uomini, per contrasto, è meglio tenersi lontani: «I fili spinati e le schegge di vetro sui muri di cinta delle proprietà private la dicono molto lunga sui rapporti umani. E poi si grida libertà, uguaglianza, fratellanza» (p. 238). E ancora: «L’animale non si rifiuta di allattare un figlio non suo, ma a Torino ci si rifiuta di affittare una camera a un siciliano o a un calabrese» (p. 268). Ne sono ben consapevoli gli animali: «La distanza che gli animali tengono rispetto all’uomo è inversamente proporzionale al nostro grado di civiltà» (p. 269).
In questo passo del 1951 Verrecchia annota in modo inquietante:
«La terra si va gradatamente inaridendo e riscaldando. Questo dipende dalla scomparsa dei boschi. Le Alpi, un tempo, erano perennemente coperte di neve e di ghiacciai. Ora, durante l’estate, le neve la si vede solo sulle cime delle montagne più alte, mentre il ghiacciaio della Grivola diminuisce di anno in anno. Lo si può anche notare dal colore meno scuro della roccia che il ghiacciaio lascia di mano in mano scoperta. E scompare, naturalmente, anche la flora. Un tempo questa arrivava a un’altezza molto superiore a quella del casotto, come dimostrano i vecchi ceppi di larice o di pino. Ora non più. Il nostro pianeta ha avuto un inizio e avrà anche una fine. Tutto ha un curriculum vitae» (p. 180).
Già allora, infatti, egli era consapevole dell’impatto negativo dell’uomo sulla natura:
«Tutto quello che scende in basso, laggiù dove vivono gli uomini, s’insozza. Penso a questi ruscelli così limpidi e puri, che vanno a portare la vita a sua maestà l’uomo. E che cosa ricevono in compenso? Tonnellate e tonnellate di escrementi, di liquami e di altre sozzure. Dal paradiso terrestre alla fogna: è questo il divino corso della storia di cui parla Hegel? Mi chiedo che cosa sarà del nostro pianeta fra cento o duecento anni, quando la popolazione si sarà almeno quadruplicata. L’uomo sarà pure l’animale più nobile, però è sporco e contamina» (p. 180).
Dure considerazioni riserva poi ai connazionali, definiti «anarchici per carattere e pappataci per vocazione»(p. 268), e «gitanti motorizzati» (p. 293):
«Gli italiani sono un popolo di sedentari, per non dire di pigraccioni e di mollaccioni. Non camminano e non amano la natura. A una bella camminata nel bosco preferiscono il ristorante, dove s’ingozzano di cibo fino all’inverosimile. Molti di quelli che incontro chiedono per prima cosa dove ci sia un buon ristorante, possibilmente “tipico”. Gli stranieri, invece, chiedono quasi sempre dove conduca questo o quel sentiero, oppure quante ore ci vogliano per attraversare questo o quel colle» (p. 270).
Egli individua una causa remota di questa incultura negli «gli stupidi dualismi come spirito e materia, uomo e animale, ecc.» (p. 24). D’altronde «chi è pigro nel camminare non ama la natura. Ma il parco bisogna visitarlo a piedi, non in macchina» (pp. 203-294).
Ci sono però uomini che non hanno perso innocenza e purezza, come l’amico Osello:
«La musica va sentita, non capita. Non si esprime per concetti. Molte persone, anche se colte, sono completamente insensibili alla musica. Infatti la cultura e l’erudizione non hanno niente a che fare con la sensibilità estetica. Il mio amico Osello non sa che cosa sia un diesis o un bemolle, ma se sente della bella musica si trasfigura. L’ho notato mentre ascoltavamo per radio brani di Wagner. La stessa cosa capita con la poesia. Quante volte gli ho letto brani dell’Odissea, dell’Eneide, della Divina Commedia o del Faust! E lui sempre teso ad ascoltare. Io preferisco di gran lunga la sua sensibilità, così genuina, alle chiacchiere di un erudito» (pp. 276-277).
Memorabile è poi questo splendido ricordo del filosofo Piero Martinetti:
«Fu uno dei pochissimi professori universitari (appena dieci su 1500) che rifiutarono di prestare giuramento di fedeltà al fascismo. Gli amici lo abbandonarono subito, perché temevano di compromettersi. Accade sempre così in simili circostanze. Già Ovidio dice che come le formiche abbandonano i granai vuoti, così gli amici abbandonano chi cade in disgrazia. Ma Piero Martinetti, bastando a se stesso, non sentiva assolutamente la mancanza di amici, veri o falsi che fossero. L’innocenza degli animali, che egli amava moltissimo (non per niente era uno schopenhauriano e s’interessava di filosofia indiana), non gli faceva rimpiangere l’amicizia infida degli uomini. Lontano dai rumori del mondo, dove di regola regna la malvagità e comanda la pazzia, trascorreva il suo tempo nello studio e nella meditazione» (p. 265-266).
Occorre cercare la solitudine e il silenzio di questi alti spazi: «Nulla contribuisce alla tranquillità dell’anima come lo star seduti vicino a un ruscello e ascoltarne il rumore. È come se l’acqua che serpeggia tra i sassi si portasse via i nostri affanni» (p. 262). Così come la compagnia degli animali, lo stambecco, la marmotta, l’aquila, il merlo e il corvo: «Che cosa vuole comunicarmi il gracchio che mi guarda così attentamente? Ha un’aria assorta e sembra che rifletta anche lui sul proprio destino» (p. 274).
In questo dicembre, lontano dal Nivolet e dai luoghi incontaminati del parco, istituito novantotto anni or sono, mi è di consolazione leggere le parole di Anacoreta Verrecchia:
«Rimanere isolati dalla neve, senza la possibilità di ricevere o di trasmettere notizie al mondo, è un’esperienza incredibilmente piacevole e unica nel suo genere. Si è a contatto solo con gli elementi della natura e si prova un’ebrezza panica. Ci si sente, per così dire, reintegrati nella natura. È una specie di apocatastasi. I rumori del mondo e la commedia della vita sono lontani, e questo dà pace allo spirito» (p. 290).
Marco Brignone
5 dicembre 2020
30 November 2020
29 November 2020
28 November 2020
25 November 2020
Recensione di Sangue e Latte - di Lavinia Stornaiuolo
“A furia di adattarmi mi ero snaturato”
Il punto esatto della presa di coscienza. Quello che arriva sempre nella vita, in un dato momento, forse il momento di maggiore improbabilità dell’esistenza. È lì che inizia il discorso.
Sangue e latte è una narrazione che si vuole sospesa, che si vuole doppia: profondamente radicata nel passato, nelle tradizioni, nel tempo ancestrale della superiorità dei ruoli e dei legami sociali, dei ritmi della terra e dei suoi profumi. È una narrazione che si vuole divisa, fra l’amore e il disagio, fra il sé sociale e il sé individuale.
Attraverso un movimento binario del racconto si tracciano molteplici dimensioni, mentre le stesse sortiscono i propri effetti in un gioco di cerchi concentrici in cui ogni riflessione, evento, ricordo, parola, inevitabilmente si inglobano vicendevolmente, costruendo le strade del protagonista, e tracciandone le vie interiori, sempre più intricate.
“Le cose dovevano essere perfette”
È qui che nasce la scissione interiore, nel cercare di definire la perfezione, di farne una misura del proprio mondo, quando invece la perfezione si rivela costantemente non esser tale, in tutte le sue forme. È la parola che svela, la parola che si offre come elemento sanatore. Ma è la stessa parola che svolge un duplice ruolo nella narrazione personale: affonda le radici nel tentativo inconscio di distruggerle, e nell’affondarle trova la forza per spingere oltre, verso una liberazione che ricombina gli aspetti dell’esistenza. La parola consente di non abbandonare il passato, ma al contempo esprime la profonda forza di fissare il passato, farne dipinto nella memoria, per poter riplasmare il presente, che è già futuro.
Sangue e latte è un manifesto della parola, nella misura in cui la stessa offre rinascita, oblio, ritorni. La parola come identità, capace di proiettare dentro per poi scaraventare fuori. Il discorso in cui ognuno può trovare le combinazioni attraverso le quali attribuire i sensi.
“Cominciare a interrogarsi su ciò che si vuole (...) Intensamente”
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