20 July 2021

UNA SVASTICA SUL VISO di Luca Buoncristiano su BENGALA - di Ray Banhoff



Scrittori buoni ce ne sono pochi e libri buoni ancora meno, per questo quando ne trovi uno è giusto condividerlo.
Joe Rotto è uno di questi.
Questo breve libro che ha scritto su Manson è illuminante, perché lo ha recitato dall'interno. Tutto il flusso di coscienza e la capillare ricostruzione storica della vicenda di Manson avevano bisogno di goccio di umanità per essere comprese.
Anche quando compie il male l'uomo è in mezzo agli uomini e di solito quel male nasce da ferite più antiche e profonde che poi sono anche l'unica spiegazione per capire l'inspiegabile.
Joe Rotto non assolve Manson ma condanna anche l'America.


Ti sei messo nei panni del mostro scrivendo il suo dolore in prima persona. Il finale del libro ribalta quasi la visuale, portando alla luce le “colpe” dell’America a cui ha attentato Manson. «Ti aspetti di spezzarmi? Impossibile! Mi hai rotto anni fa! Mi hai ucciso anni fa». 
Dentro di te però: Manson è colpevole?
Una svastica sul viso nasce dal suo dolore. Quando mi sono messo a leggere o guardare le sue interviste deliranti mi sono reso conto che dietro gli sproloqui, le boccacce, le minacce, c'era un piccolo uomo pieno di dolore e in questo dolore mi ci sono messo dentro. La scelta di utilizzare le sue dichiarazioni, rimaneggiarle, inserire delle cose mie, ha significato non annullare il mostro ma assumere la responsabilità di essere mostro. Manson è colpevole di essere Manson. Come tutti noi lo siamo. Colpevoli di essere. Il finale è un j'accuse alla società americana, ma anche semplicemente alla società e a stringere alla famiglia che della società porta ipocritamente avanti i valori.
Non lo giudico, non posso e non mi interessa. Sicuramente non è un assassino. Ciò che mi interessa è la narrazione di questa non vita che è una vita interiore. Manson non agisce, né quando è rinchiuso, né fuori, però parla, parla molto, ha molto da dire.

Cito un tuo passaggio: «Avete trovato me. Avete trovato il mostro.Questa strage vi serviva proprio. Tutto è diventato accettabile. Perché non si possono uccidere le star, perché non si può uccidere Hollywood… i vostri sogni preconfezionati per i videoregistratori dei vostri cervelli».Se la Family non avesse fatto fuori la Tate, Manson sarebbe diventato l’icona del male che è?
Assolutamente no. Il peccato più grande, lo scandalo di questa storia atroce sta proprio nell'aver ucciso un star hollywoodiana. Nell'aver violato un mondo fino allora inviolabile. E' qui che abbiamo una sostituzione, anzi una sovrapposizione. Nella sua tragica scomparsa, Sharon Tate diventa ancora più brillante, si ingigantisce e Charles Manson diviene anch'esso una star, un mito, un'icona. Due mondi apparentemente inconciliabili, quello delle star e quello dei delinquenti si sovrappongono, si uniscono e finiscono in un'unica narrazione.

Parlami del tuo rapporto con CM. Cosa ti ha spinto a scrivere di lui in prima persona, da dentro. E come è stato?
Fin da ragazzo mi ha sempre attirato. Mi faceva terrore e questo a me è sempre piaciuto. C'è qualcosa di assolutamente magnetico nella paura e gli occhi di Manson erano veramente magnetici e poi c'era la storia che è comunque una storia hollywoodiana.
Solo che a me non bastava, volevo vedere dietro la maschera cosa ci fosse e così ho guardato e mi sono messo anche io questa maschera e ho capito quanto sia difficile togliersela quando questa diviene la tua salvezza. Charles Manson è un uomo che pur di esistere decide di assumersi l'esistenza che gli viene attribuita: quella del mostro. Egli indossa quella maschera perché può parlare solo attraverso di essa. Senza è muto col suo dolore e il suo isolamento.

Non ti fa sorridere il fatto che di cognome fai "Buoncristiano" e che ti occupi del Diavolo moderno? Era il tuo karma forse?
Mi sono occupato molto anche di Carmelo Bene, di cui ho curato un volume edito da Bompiani (PANTA CARMELO BENE) frutto del lavoro di archivio che ho fatto sul suo lascito artistico. Forse lì la vicinanza dei due cognomi era più conciliante. Credendo che il destino sia nel cognome probabilmente ho qualcosa da espiare.


Sono molto affascinato dalla cultura americana e dalla nera ma ti chiedo una cosa da scrittore. Manson è il simbolo del male americano. Chi è il suo analogo in Italia?
Non c'è, non con quelle caratteristiche. Manson è frutto di quella cultura lì, di quella società lì, feroce e spersonalizzante. Non a caso è raro che ci siano serial killer da noi. Non siamo figli di Guerre Stellari o McDonald's. Nondimeno ci sono straordinari casi di cronaca nera, basti pensare al Delitto del Circeo, al Mostro di Firenze, la strage di Erba, Avetrana e così via. La mostruosità americana è più individuale, la nostra forse più condominiale.

Who is Joe Rotto? Che fai nella vita?
Joe Rotto, accompagnato dal suo fedele microcane Sid, è la mia creatura che mi porto dietro ormai da parecchi anni. Potrei definirlo, il mio amico immaginario cui ho dato volto e voce nei miei lavori precedenti (Libro Rotto e Album Rotto).
Joe è lo spacciatore per antonomasia, è colui che soddisfa qualsiasi vizio, che tu sia Michael Jackson, Axl Rose o un comune mortale. "Il mondo è fatto di dipendenze e io sono qui per questo" è il suo adagio.
Lui più che un mostro è un connettore di mostruosità.
Essendo un successo underground ormai mi si identifica con lui e quindi il creatore ha finito col prendere l'identità della sua creatura.
Oltre a scrivere, sono impiegato in un'azienda di armamenti.

La Nera, i delitti, la curiosità delle persone per questi brutti fatti. Che cosa rappresentano?
L'uomo tende al male, c'è poco da fare. Quando ci mettiamo al volante, tutti i santi giorni, auguriamo la morte almeno a una decina di persone e questo nel migliore dei casi. C'è una spinta al male che la maggior parte di noi domina ma nessuno può cancellare. Guardare l'orrore può allora essere catartico o più banalmente piacevole.
Quando si fa del male si pensa sempre di essere nel giusto. E' l'unica scelta possibile in quel momento. Dopo interverrà la legge o la religione o la coscienza a farci capire che forse, forse, abbiamo sbagliato, e non sempre.

Stando anche alle ultime dicerie, forse è Maryln Manson il suo unico vero erede nell’inconscio collettivo?
Marilyn Manson mi sembra solo l'ennesima vittima di questa isteria collettiva chiamata nuovo femminismo, contenuta a suo a volta in questa cazzata del politically correct, che ha come unica espressione la pubblica gogna e che sta rendendo questo mondo ancora più invivibile di quello che è. Non si possono distruggere le persone sui social, innocenti o colpevoli non mi interessa. Esiste la legge, esiste il commissariato, esistono i tribunali, si deve andare lì, no su instagram. I processi non si fanno con gli hashtag né tantomeno le battaglie per i diritti civili.




08 July 2021

La eterna belleza de la palabra: un retrato de Emily Dickinson - por Rafael Becerra

 




Existió una poetisa hecha de vapor de agua, de junco y arcilla, y de soplo de brisa de la tarde.
Existió esa mujer casi transparente que no nació para ser desentrañada, que nada tenía que ver con el mundo de los hombres y mujeres que la rodeaban. Ella vivió en una realidad que se nos escapa, de la que hemos desertado y a la que hemos traicionado, y sin embargo, la gente de su tiempo la clasificó pinchándola como a una mariposa en un sombrío cajón acristalado. Pero a ella eso no le importó; como mística, transitó sendas que no están a la vista de cualquiera, en sus menguadas fronteras físicas descubrió toda la grandeza de la existencia, rodeada de flores, de insectos, de amaneceres y de lluvia. Condensó en su bella poesía una página universal del libro de la vida.


Como un ser milenario que aprendió del detalle más insignificante de la naturaleza, la poetisa describe la grandeza de lo pequeño, sutíl engranaje sin el cual esta máquina perfecta no funcionaría.
¿Es posible púes dar con los secretos del alquimista del mundo?
Sí, pero solo una clase de seres están a la altura de vislumbrarlos, una clase nada común, nada pretenciosa; seres que permanecen en silencio maravillados y sumergidos en el más sencillo pensamiento, y algunos, generosos y plenos de amor nos cuentan sus secretos, nos esbozan delicadamente lo profundo y extraordinario de su labor de hormiguita. Su pensamiento tejido con sencillez y belleza, la urdimbre necesaria para la finalización de un tapiz que roza la perfección.
Existió una vez una poetisa, que nos regaló la belleza de unos versos eternos.


Otros pies van y vienen por mi huerto,
otros dedos la tierra han removido;
un trovador que se posó en el olmo
va diciendo el lugar de mi retiro.

Jugando hay otros niños en el prado
y debajo, cansada, se ha dormido otra gente;
y todavía vuelve, pensativa,
la primavera, y puntual, la nieve.


Rafael Becerra






06 July 2021

WILSON EL CHIFLADO - Mark Twain

TRADUCCIÓN:
RAFAEL BECERRA

PORTADA:
PAMELA VARGAS


Wilson el Chiflado es la historia de varias injusticias que se producen en veinte años de la vida del pequeño pueblo de Dawson's Landing. Un crimen sin resolver, una suplantación de personalidad, una acusación falsa de asesinato, un calendario genial, y sobre todas ellas la historia de un apodo que condena a su portador a la burla y el desaire de todo el pueblo durante muchos años. Por sus páginas desfilan la ironía, el humor, la tragedia, la ignorancia, la maldad y la paciencia de quién es tachado de chiflado y que a la postre intenta demostrar que tal vez todos estaban equivocados. ¿O no?

Cuenta la leyenda que a Mark Twain lo trajo un cometa. Él mismo predijo que se marcharía a la vuelta de este. Fue depositado a orillas de una de las grandes serpientes del mundo: El río Misisipi, por el que fue criado y donde pescó sus mejores historias. Hombre pasional, comprometido, y pesimista. Gran viajero y conferenciante, observó gran parte del mundo aplastado bajo la cadavérica mano del imperialismo, enfrentando su pluma contra tan despiadada bestia. Su pensamiento más oscuro sobre la raza humana queda reflejado en el calendario de Wilson el Chiflado y en el nuevo calendario de Wilson el Chiflado, inscrito, este último, en el libro Viaje alrededor del mundo siguiendo el ecuador.

Su definición más acertada la encontramos en sus propios escritos: «La mayoría siempre está equivocada. Cada vez que veas que estás al lado de la mayoría, será el momento de reformarte».










04 July 2021

#8 GORZANO. LEGGERE DOVE NON SI LEGGE - di Gaia Russo Frattasi e Eugenio Di Donato


In viaggio con Sangue e Latte, di Gaia Russo Frattasi ed Eugenio Di Donato un racconto tra Abruzzo, Lazio e Marche in 12 tappe.

Il bosco del Gorzano è un’invenzione di Gaia. È un viaggio in un cartone animato, è il bosco di Miyazaki popolato di maiali, uomini delle caldaie e incantesimi. Come l’incantesimo che ha colpito il nostro piccolo amico topolino che per svariati minuti ha tentato, senza riuscirvi, di liberarsi dalla morsa della fontana.

Nuotava con le zampette davanti velocissime, si muoveva come i topini che si vedono in Ratatouille. Tanto che non sai se i topi di campagna si siano sempre mossi così, morbidi e teneri, o abbiano imparato dopo aver visto il cartone.

Il bosco del Gorzano è stato un viaggio nel viaggio, un balsamo potente e rigeneratore dopo le case divelte di Preta. 

Una poesia dolce e una cura.

L’ennesima testimonianza che i libri possono portare ovunque, anche in mezzo agli incantesimi.

LEGGERE DOVE NON SI LEGGE from Gaia on Vimeo.

28 June 2021

ALORS, VOUS N'AIMEZ PAS LE CINÉMA FRANÇAIS?: I surrealisti e la critica della Settima arte - Giovanni Davide Locicero

 
L’industria cinematografica francese ebbe un esordio fenomenale: grazie alle intuizioni dei fratelli Lumière le sale di proiezione si popolarono di maghi del palcoscenico, comici-poeti e misteriosi criminali. Questo almeno è il parere di Robert Desnos e Jacques Brunius: questi due artisti surrealisti del gruppo di André Breton condurranno il lettore attraverso le vicende alterne del cinema francese, destinato nei due decenni successivi a subire, prima la decadenza della produzione dell’impressionismo cinematografico, e poi la conclusione del suo ciclo vitale, che però permise l’affermazione di registi come Jean Renoir o Marcel Carné.


Giovanni Davide Locicero è nato a Messina, dove attualmente risiede. Si è laureato all’Università di Firenze, con una tesi in Estetica su Minotaure, la rivista dell’anteguerra, testimonanza dell’ultima fase del percorso surrealista. Ha poi conseguito nel 2012 un PHD nel Dottorato in Antropologia e Studi Storico-Linguistici dell’Università di Messina. Inoltre lavora nell’ambito della post produzione video.

François Proïa, professore ordinario di letteratura francese all’Università di Chieti-Pescara, si è occupato delle Avanguardie e dei poeti maledetti, oltre che di ricerche e pubblicazioni sulla la storia e la cultura francese. Dal 2021 dirige per El Doctor Sax la collana L’Écume des jours.

24 June 2021

FARSI MALE CON LO YOGA . Recensione di YOGA di Emmanuel Carrère - Enrico Romanetto



L’errore più semplice da commettere davanti alle trecento paginette di Yoga è quello di berlo come un bicchiere di acqua ghiacciata. Sensazione di fresco nell’immediato: Emmanuel Carrère è tornato. Poi gola e stomaco cominciano a raffreddarsi più del dovuto, ci si sente gonfi e si rischiano i crampi. Carrère si sfoga nel pieno di una nuova crisi di mezz’età che lo scrittore parigino non risolve nell’artificio del romanzo, con la violenza trasformata in catarsi come fa con Serotonina il suo non dichiarato antagonista letterario, Michel Houellebecq, che viene citato con un timore quasi adolescenziale. No. Carrère concede al lettore solo la possibilità di ricostruire una trama tutta immersa nel reale. Il suo. La sua vita è il baricentro egotico di tutti gli avvenimenti attraverso cui l’autore si ritrae mentre passa da un ritiro nel silenzio della meditazione Vipassana, fino al ricovero in una clinica psichiatrica e all’elettroshock. Nel mezzo, le sue manie. Prima blandite da una sorta di nuova coscienza, che l’ormai sessantenne si impone, poi combattute a colpi di scariche, annotate come in una sorta di diario esperienziale. 


Ossessioni borghesi, un po’ puerili, come quella di non riconoscersi nel grande scrittore che avrebbe voluto essere, oppure, una sessualità ancora vivace. È qui Carrère dà il meglio in termini di voyeurismo, citando anche Torino e celebrando la Holden di Alessandro Baricco come la migliore scuola di scrittura creativa. La letteratura c’entra poco, perché la vicenda non riguardo altro che una copula, mancata, con una giovane allieva incrociata durante una vacanza in Grecia. Quasi un ritiro per convalescenti agiati e pieni di guai incorniciato dall’isola in cui approdano i migranti più disperati, le cui storie diventano un’altra volta controcanto della propria vita agra come non era avvenuto A Calais. L’ultimo rigo ripaga della pazienza. Emmanuel Carrère si rivela per quello che nessuno si sarebbe atteso all’inizio. Lo stesso di prima, salvo far infuriare sicuramente più d’uno dei suoi “fedelissimi” con una scena finale in cui, davvero, dovrebbe concentrarsi tutta la curiosità del lettore. Così da scoprire perché non abbiamo tra le mani il volumetto sullo Yoga che l’autore si era ripromesso di scrivere.

Enrico Romanetto

22 June 2021

JOHN BARLEYCORN de Jack London - por Rafael Becerra

 


Una vez más el maestro Jack London escarba en sus recuerdos para ofrecernos otro libro autobiográfico lleno de aventuras de todo tipo. Pero esta vez lo hace narrando su relación intima con el alcohol, llamado John Barleycorn. Desenmascara a tan escurridizo personaje descubriendo todas sus tretas, todas las artimañas que utiliza para arrastrarte hasta el fondo del pozo y acabar contigo. Un demonio al que hay que conocer profundamente para poder sobrevivir a su abrazo y hacer que se doblegue si quieres que cabalgue contigo durante toda tu vida.

Desmadejando sus recuerdos, London nos habla de la temprana primera cerveza que lo llevó a su borrachera inaugural, y a partir de ahí, del profundo conocimiento que tuvo de tan nocivo camarada durante toda su vida. “John Barleycorn ha convertido en ruines a más hombres de los que ha llevado a la gloria” La narración que atrapa desde las primeras páginas se convierte en un catálogo del arte y la desgracia del bebedor, cuenta la ruina a la que te lleva la bebida sin control, pero también habla de la camaradería, de los momentos de euforia y los encuentros propiciados por ella, antes de caer atrapado en sus redes. Al mismo tiempo las vivencias de este gran aventurero nos desgrana una personalidad única siempre queriendo más, deseando empequeñecer el mundo ante sus ojos, esos ojos voraces, escrutadores, que almacenaban todo lo que veían para que los afortunados lectores soñáramos las aventuras de otro.


La vida alrededor de los muelles, embarcaderos, barcos de todos los calados, rutas comerciales, pirateo de ostras, tipos despreciables, y desgraciados de cualquier pelaje, pero sobre todo tabernas, saturadas de brebajes de todo tipo para demoler y doblegar mediante el embrutecimiento. “John Barleycorn destruye porque es accesible, está en cualquier calle, protegido por la ley, saludado por los policias, a quienes habla a quienes saluda y conduce a los lugares en donde sus devotos se encuentran sumidos en su ausencia”

El libro es de una honestidad aplastante, London no oculta nada, se desnuda en sus páginas para mostrar sus llagas de bebedor, los excesos de una vida en el filo de la navaja, que a la postre le pasaría factura. Una rama del árbol frondoso que fue ese gran aventurero, que exprimió su existencia para poder plasmarla en sus libros.
Las memorias alcohólicas es un relato de los que no se olvidan fácilmente, uno de esos volúmenes que se atesora con cariño y al que se promete una segunda lectura pasados unos años, justo quizás cuando nosotros mismos hallamos aprendido a ignorar o a dominar a ese espíritu burlón que nos ronda todos los días llamado John Barleycorn.

Rafael Becerra Bernal

12 June 2021

#7 PRETA. LEGGERE DOVE NON SI LEGGE - di Gaia Russo Frattasi e Eugenio Di Donato



In viaggio con Sangue e Latte, di Gaia Russo Frattasi ed Eugenio Di Donato un racconto tra Abruzzo, Lazio e Marche in 12 tappe.

A Preta non c’ero mai stato. Ci arriviamo passando per Campotosto, un paese che non esiste più. Circumnavighiamo il lago omonimo e arriviamo a Mascione. Passiamo per Capitignano e Monte Reale che con il suo nome e l’immenso viale alberato evoca grandi città reali come Torino e Caserta.
È tardi, il sole è sceso da un pezzo e Montereale è quasi deserta. Lungo il viale è aperta una rosticceria. Beviamo una birra e sgranocchiamo delle crocchette di patate appena sfornate. Di fronte a noi tre signore chiacchierano nella frescura della sera. Rifocillati continuiamo il giro quando ci coglie intenso l’odore del pane. Esplode da dietro le mura di una grossa casa in pietra, si infila potente nelle narici, riempie l’aria e corre giù lungo la via.

È il forno del paese, il forno del territorio, da qui parte il pane per i comuni in basso lungo la vallata, per il centro commerciale. Perfino per L’Aquila.

Siamo ancora stregati dal profumo del pane quando da un vicolo spunta un signore con una sedia. Si siede all’angolo con la casa del forno. Aspetta la figlia che arriva con l’ultima Corriera. Sono quasi le undici. Tutti i giorni la figlia va a Roma e torna indietro. Due ore e mezza ad andare due ore e mezza a tornare.

Il signore guarda lungo il viale deserto, guarda la piazza in fondo dove adesso sarà arrivato l’odore del pane e dove sosterà la corriera. Tra tre quarti d’ora scenderà sua figlia. Ha gli occhi vacui.

Montereale è a pochi chilometri da Amatrice.

È stato tra i primi a partire quella notte. Il primo ad arrivare ad Amatrice dal lato di Monte Reale.

Era buio, l’illuminazione era saltata, e ci ha messo un po’ a capire che il paese non c’era più. Se n’è accorto quando i fari dell’automobile hanno illuminato le macerie. Quando si è dovuto fermare perché le case erano sulla strada.
Ha salvato diverse persone quella notte, il signore è un volontario della croce rossa. Hanno caricato sull’unica ambulanza tutte le persone che potevano. Quando hanno finito le garze hanno bendato i feriti con le magliette, sistemato i cadaveri come potevano uno accanto all’altro.

Gli si rompe la voce. Piange.

Non smette di piangere.

Racconta e ripete che nel buio, tra le macerie, ne è sicuro, ha calpestato i corpi di due bambine.

Se ne vergogna, quest’uomo che ha salvato la vita ad almeno dieci persone si vergogna.

Il signore si volta, ha riconosciuto il rombo della corriera, ci guarda e per la prima volta sorride. Si asciuga gli occhi e si ricompone.


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05 June 2021

#6 PRETARA CASTELLI. LEGGERE DOVE NON SI LEGGE - di Gaia Russo Frattasi e Eugenio Di Donato

 


In viaggio con Sangue e Latte, di Gaia Russo Frattasi ed Eugenio Di Donato un racconto tra Abruzzo, Lazio e Marche in 12 tappe.

Ai piedi e sopra il Sasso di Pretara ho passato un numero enorme di pomeriggi. Ci venivo con Tommaso, con Gilberto, Con Gabriele Schirano e anche con mio fratello. Venti, Venticinque anni fa. Ci sono arrivato in auto, con il furgone, in bici, in auto-stop. 

A Pretara ci si andava da soli, a fare i traversi quando non si aveva una compagno con cui scalare. Ci si andava a provare la mitica Pino la Rana, un 6b ammanigliato sotto la pancia del Sasso. 

Una via che a guardarla sembra impossibile da salire e che invece si riesce a scalare. Una via che oggi per la sua difficoltà fa ridere ma che nel ’95, in provincia di Teramo, non era affatto scontata. All’epoca non c’erano molte falesie chiodate nella provincia. E anche Pino la Rana oggi chiodata a fittoni resinati era protetta con un paio di cordini, due cavetti d’acciaio morsati intorno a una clessidra e un unico spit da 8 mm prima di arrivare in catena. 

La prima volta che ho salito Pino La Rana è stata una grande, grandissima, soddisfazione. L’ho imparata guardando Gilberto. Eravamo in pochi a salirla nel ’95. Eravamo in pochi a scalare. All’epoca almeno a Teramo, ma credo in Abruzzo non esisteva ancora la resina. 

Ci sono stato decine e decine di volte a Pretara, centinaia, senza esagerazione, davvero tante, ma non ero mai andato a vedere i lavatoi. Per noi arrampicatori Pretara era il Sasso. Il mondo cominciava e si esauriva intorno al Sasso. Un sasso che oggi non basta più, e che non bastava nemmeno allora, è, in effetti, una miniatura di falesia, ma resta bellissimo, piantato lì a un metro dal fiume, e con la sua via più difficile, La Sud del Camicia, un ostico 7a dà ancora del filo da torcere. 

Su Castelli avrei molto da dire, è il luogo insieme a Milano dove ho trascorso più tempo, per ora mi taccio e lascio raccontare gli scorci del filmato.


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29 May 2021

#5 FONDO DELLA SALSA. LEGGERE DOVE NON SI LEGGE - di Gaia Russo Frattasi e Eugenio Di Donato


In viaggio con Sangue e Latte, di Gaia Russo Frattasi ed Eugenio Di Donato un racconto tra Abruzzo, Lazio e Marche in 12 tappe.

C’era una volta il nevaio più a Sud d’Europa.

I paesani si arrampicavano con i muli e le scuri per tagliare blocchi di ghiaccio. Ci andavo anch’io da bambino, mio padre ogni anno mi portava a visitare la fabbrica del ghiaccio. C’era neve ovunque, c’erano grotte enormi in cui potevi correrci dentro e l’acqua sgorgava in rivoli gelidi.

C’era un mare di neve. Una montagna di neve. Era il nevaio del Fondo Della Salsa, giaceva sul fondo della parete Nord del Monte Camicia. La neve è scomparsa, si fa fatica a scorgere una pozza d’acqua e pensare che qui, ai piedi del nevaio, era tutto un gorgoglio. La sentivi l’acqua, scorreva viva sotto i sassi.

Le cose cambiano, anche noi cambiamo, invecchiamo e c’è ben poco da fare. Pare sia il processo naturale.

Forse il destino del nevaio del Fondo della Salsa era quello di sciogliersi, di scomparire senza lasciare traccia se non nella memoria di chi ci ha camminato sopra e di qualche fotografia ingiallita.

Il pianeta Terra si scalda e i nevai e i ghiacciai si sciolgono. Si sciolgono a velocità inaspettate, è un dato di fatto. Accertato e misurato.

Eppure ignoriamo questo dato, di fatto facciamo finta che non esista.

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